DAUNIA DUE SICILIE
  La fortezza di Fenestrelle
 

 

LA FORTEZZA DI FENESTRELLE
 di Antonio Pagano

Hitler non inventò nulla che non fosse stato fatto prima dai Savoia
(dal PeriodicoDueSicilie 11/1998)
 
Quando il comitato di redazione di Nazione Napoletana - Edizione Nord - decise di fare
questo inserto, le indicazioni per RIN, l'autore di questo pezzo, furono quelle di fare una
ricerca sulla Fortezza delle Fenestrelle, dove vennero rinchiusi i prigionieri Napolitani
nel 1860. In realtà ne è venuto fuori qualcosa di diverso e, piú che delle Fenestrelle,
l'inserto parla delle terribili sofferenze che sono state inferte ai nostri soldati
dall'aggressore piemontese.
A questo punto avrei dovuto cambiare il titolo, poiché solo verso la fine, e solo con una
breve descrizione, si parla delle Fenestrelle, che fu, come leggerete, la "soluzione
finale" per tanti nostri sventurati soldati. Ho voluto, tuttavia, lasciare intatto questo
titolo perché Fenestrelle è al di là della sua storia. Fenestrelle identifica, infatti, i Savoia
e i Piemontesi. La fortezza è cioè una "costruzione simbolo di popolo": come lo è il
Colosseo per i Romani, il Maschio Angioino per i Napolitani, la statua della libertà per
gli Americani, cosí come i tanti monumenti in ogni città del mondo. Fenestrelle è un
simbolo vergognoso, e identifica in modo esemplare quali sono stati i valori dei Savoia
e dei Piemontesi, ma la costruzione è citata in un depliant turistico dalla Regione
Piemonte come luogo da visitare, perché incarna lo "spirito europeo" (sic).
Noi della redazione conosciamo benissimo le capacità dell'autore: paziente e
instancabile ricercatore, puntiglioso nel trovare le prove delle vicende e, seppure
appassionato patriota, equilibrato nei giudizi. Proprio per questo le notizie che sono
venute fuori hanno suscitato in tutti noi un vero e proprio sgomento, indignazione e una
profonda rabbia. Certo, dopo 138 anni da quegli avvenimenti, può far sembrare
incredibile provare ancora questi sentimenti, ma vi accorgerete, leggendo, che queste
sono le sensazioni che, frase dopo frase, montano dentro la mente di ogni lettore, anche
non di parte.
Antonio Pagano
EUROPA : LA MADRE DI TUTTE LE STRAGI
Quando si accenna a sterminii di guerra, l'immaginario collettivo fa prontamente
riferimento ai campi di concentramento nazisti di Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen
ed altri che la televisione e i film hanno reso tristemente familiari. Un po' meno
familiari sono gli sterminii compiuti dai sovietici contro le nazionalità dell'Europa
orientale e dai Giapponesi contro il popolo cinese e i popoli del sud-est asiatico.
In Europa, alla fine della II Guerra Mondiale, che causò una mattanza infinita, dopo
parecchi anni di silenzio, ma soprattutto perché il padre Stalin tolse l'incomodo della sua
presenza da questo mondo, a poco a poco cominciarono ad emergere, dagli archivi dei
servizi segreti, i fatti agghiaccianti delle fosse di Katyn in cui i sovietici fecero macello
dell'ufficialità polacca deportata dopo la spartizione della Polonia con la Germania
nazista. Le foto dell'orribile massacro, migliaia di scheletri, oltre diecimila, riportati alla
luce, fecero in un baleno il giro del mondo, il mostro, esaltato per parecchi lustri, cioè
da quelli che non avevano degustato il paradiso sovietico, il mostro, dicevo, divino
modello di protettore dei popoli contro l'imperialismo americano ed occidentale, era
stato finalmente smascherato. Accortamente gli oppositori ideologici del sistema
sovietico se ne servirono polemicamente per lunghi anni, ma oggi purtroppo quasi
nessuno dei giovani sa di quell'infame genocidio e, forse, neppure gli anziani lo
ricordano piú, tempestati come sono, in questo secolo cosí breve, da notizie sempre piú
atroci.
STRAGI NELLE DUE SICILIE
Eppure il massacro di Katyn, finalizzato all'eliminazione di qualunque opposizione
all'imperialismo sovietico, non era, sul piano storico, una novità nel panorama dei
crimini di guerra. Senza far mente a Napoleone, che in fatto di sterminii fu un campione
ineguagliato per oltre un secolo, basti al riguardo citare solo le stragi perpetrate dai suoi
generali nella invasione delle Due Sicilie nel 1799 che però non piegarono il nostro
popolo, come con lealtà ammise uno di essi, il Thièbault (i Napoletani ci insegnarono a
temerli come uomini... Sebbene siano stati battuti dappertutto e, senza contare le perdite
che subirono durante i combattimenti, piú di sessantamila di essi siano stati passati a fil
di spada, sulle macerie delle loro città o sulle ceneri delle loro capanne, NON LI
ABBIAMO MAI LASCIATI VINTI) [altro che tremila morti di cui parla Colletta,
N.d.R.] sappiamo delle terribili stragi etniche nel nostro Sud dal 1860 in poi, tipo quelle
di Scurcola Marsicana, Pizzoli, Isernia, Pontelandolfo, Casalduni, Montefalcione e tante
altre, documentate sia da storici delle Due Sicilie che da memorie militari di alcuni
criminali generali invasori protagonisti degli eccidii, per i quali, anche se post mortem,
prima o poi dovrà essere istruito un Tribunale di Norimberga: "Le SS del 1860 e degli
anni successivi si chiamarono, per gli abitanti dell'ex Reame, piemontesi, afferma con
sacrosanta ragione Alianello in "La Conquista del Sud" (Rusconi, 1994, pag. 261) e
inoltre (a pag. 257): "Morti a cataste. torme di schiavi ai lavori forzati, schiere di esuli,
senza casa e senza pane, senza onore, si vanno aggirando per le strade d'Italia, d'un'altra
Italia. ostile. beffarda, dovunque accolte dal sospetto che è anche terrore e ripugnanza
persino. Il destino del Sud è ormai fissato per cento anni almeno" grazie anche a tutti gli
scellerati collaborazionisti, tantissimi, di casa nostra.
Antonio Ciano, nel suo libro ""I Savoia e il massacro del Sud", parla di un milione di
morti "acc'si", cifra non inverosimile dal momento che il corpo di occupazione
piemontese, "che disponeva ormai di tutta la forza d'Italia" (Francesco II), compresa la
guardia nazionale di trista memoria, assommava nel 1865, anno del massimo sforzo
contro la resistenza meridionale, a mezzo milione di uomini, cioè A TANTI QUANTI
GLI AMERICANI NELLA GUERRA DEL VIETNAM. "Se si traesse il novero dei
fucilati, dei morti nelle zuffe, dè carcerati dal Piemonte, per soggiogare il Regno di
Napoli, senza fallo si troverebbe assai maggiore di quello dei voti del plebiscito,
strappati con la punta del pugnale e colle minacce del moschetto..." riferisce La Civiltà
Cattolica (Serie IV, Vol. XI, 1861, pag. 618). Come dire che i morti, nel 1861 mese di
agosto, superavano già di gran lunga il milione trecentomila. Infatti i risultati del
cosiddetto plebiscito, truccati ed estorti con i moschetti alla gola, risultarono essere:
1.302.064 Sí contro 10.312 No. La menzogna di tali numeri è scolpita, per chi avesse
ancora qualche dubbio in proposito, nella lettera da Napoli a Ruggero Bonghi n. 3298
datata 20 marzo 1861 del Carteggio di Cavour, La Liberazione (!!!) del Mezzogiorno,
vol. IV pag. 398, Zanichelli: " ... Ieri è stato il giorno piú solenne per dimostrare lo
scontento di tutto il popolo. Il 14 fu la festa del Re ', non lumi, non feste, non un evviva
:..il 18, proclamazione del Regno d'Italia, silenzio di morte..."
SOLUZIONE FINALE PER L'ARMATA DEL SUD
Poco o per nulla invece si è parlato dello STERMINIO DELL'ARMATA DELLE DUE
SICILIE. Eppure, documenti che accennano a luoghi e cifre dei deportati
"desaparesidos" nei campi di concentramento sabaudi (regolarmente dimenticati dagli
"storici" prezzolati di regime) esistono e come! per esempio, la seguente lettera di
Cavour a Farini, luogotenente a Napoli, datata 21 novembre 1860, n. 2551 del citato
Carteggio, vol. III: "Carissimo amico. Io vi prego a nome pure dei miei colleghi a
rifletterci ancora sopra prima di spedire qui tutte le truppe napoletane che il Papa e i
Francesi ci restituiscono (si tratta di 12.000 soldati fatti prigionieri a Terracina, là
inviati dal Re Francesco II perché tornassero nel Regno dalla parte degli Abruzzi,
N.d.R.). è, a parer mio, atto impolitico sotto tutti gli aspetti. Il trattare tanta parte del
popolo da prigionieri non è mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni del
Regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell'esercito nazionale è impossibile e
inopportuno. Pochissimi consentono ad entrare volontariamente nel nostro esercito, il
costringerli a farlo sarà dannoso anziché utile almeno per ciò che riflette gran parte di
essi. Ho pregato Lamarmora di visitare lui stesso i prigionieri che sono a Milano. Lo
fece con quella cura che reca nell'adempimento di tutti i suoi doveri. Poscia mi scrisse
dichiarandomi che il vecchio soldato napoletano era canaglia di cui era impossibile
trarre partito; che corromperebbe i nostri soldati se si mettesse in mezzo a loro. Credo
che bisogna fare una scelta, mandare a casa tutti quelli che hanno piú di due anni di
servizio, dichiarando loro che al menomo disordine sarebbero richiamati sotto le armi
e mandati a battaglioni di rigore. Tenere sotto le armi quelli che non hanno compiti due
anni di servizio e quelli fonderli nei reggimenti, costringendoli a servire per amore o
per forza. Vi prego di comunicare queste idee a Fanti, invitandolo a nome del
Consiglio a soprassedere almeno per qualche tempo dallo spedire a Genova quegli
ospiti incomodi... Vi mando la lettera di Lamarmora sui prigionieri Napoletani... ".
Vediamo quale era la lettera che questo generalone aveva inviato al suo Hitler in
sedicesimo il 18 novembre 1860 (non si meraviglino i lettori per tale accostamento:
Hitler invase la Francia attraverso il Belgio e l'Olanda, il conte dracula il Regno
attraverso lo Stato pontificio): "... Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri
Napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non
arriveranno a 100 quelli che acconsenton a prendere servizio. Sono tutti coperti di
rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d'occhi... e quel che è piú dimostrano
avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano
aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento,
avendo giurato fedeltà a Francesco secondo, gli rinfacciai che per il loro Re erano
scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavan a servire, che erano
un branco di carogne che avressimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per
verità che cosa si potrà fare di questa canaglia, e per carità non si pensi a levare da
questi Reggimenti altre Compagnie surrogandole con questa feccia. I giovani forse
potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al piú presto".
Le condizioni igieniche erano spaventose, ma non per questo il soldato napolitano
perdeva orgoglio e maestà. Da questa lettera emerge a tutto tondo il volto della vera
canaglia, lui, il Lamarmora, il codardo che finché era al sicuro macellava a Gaeta il
nostro esercito con i cannoni rigati francesi e i fucili inglesi, sostenuto dalle massime
potenze mondiali di allora che erano venute a dichiararci una guerra altrettanto
mondiale, ma che, nel 1866, a Custoza, nonostante che le sue forze fossero quattro volte
superiori a quelle di Alberto d'Austria, fuggiva piú veloce di un coniglio in compagnia
di tutti quegli altri scellerati come Cialdini, il boia numero uno, che si erano distinti nel
crocifiggere prima i nostri fanti sul Volturno, a Gaeta, a Civitella e a Messina e poi il
nostro popolo indifeso che gli si opponeva con le falci, coi forconi e con le pietre: tanti
presi, tanti fucilati, questo era il motto di quegli assassini. Ma nonostante le fucilazioni
a catena elargite con sadica disinvoltura dal barbaro aggressore, una fierissima
resistenza antiunitaria dilagava in tutto il Sud. Resistenza che purtroppo solo
sporadicamente era capeggiata da ufficiali fedeli alla Patria napolitana. La cosa fu
messa in risalto dal Vice Ammiraglio Leopoldo Del Re, Incaricato del Portafoglio degli
Affari Esteri del Governo Napolitano in esilio, in data 7 settembre 1861, cioè
esattamente un anno dopo l'inizio della resistenza, in risposta al memorandum di
Ricasoli: "... Ai numerosi soldati che si battono contro l'invasore non mancano, come
invece pretende Ricasoli, capi volontari e non mancherebbero loro neanche i generali
napoletani, se i proconsoli piemontesi, temendo ciò, non li avessero arrestati tutti, con
pochissime eccezioni e inviati a Genova, ad Alessandria, a Fenestrelle... Questa
misura ha colpito generali e ufficiali superiori nonostante gli accordi di Capua, Gaeta
e Messina, e che non erano tra quelli che il Piemonte avrebbe potuto decorare con
l'ordine di S. Maurizio... "
I FEDELISSIMI
Eppure, agli sforzi assassini che il bandito Cialdini compiva contro Gaeta, la
Guarnigione della Cittadella rispondeva impavidamente, sotto l'uragano delle bombe,
con un ri-giuramento di fedeltà alla Patria duosiciliana e al Re Francesco Il. Leggiamolo
assieme.
"Sire.
In mezzo al deplorevoli avvenimenti, di cui la tristezza dè tempi ci rese spettatori
dolenti e indignati, noi sottoscritti ufficiali della guarnigione di Gaeta, uniti in una
ferma volontà, veniamo a rinnovare l'omaggio della nostra fedeltà dinanzi al vostro
trono, reso piú venerabile e piú splendido dall'infortunio. Cingendoci la spada, noi
giurammo che la bandiera affidataci da V.M. sarebbe da noi difesa anche a prezzo di
tutto il nostro sangue. Ed è a questo giuramento che noi vogliamo rimanere fedeli
qualunque sieno le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dè
nostri capi; noi sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e qualunque
altro bene per il trionfo e pei bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell'onor
militare che solo distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V.M. ed
all'Europa intera che, se molti dè nostri, col tradimento e colla viltà, hanno bruttato il
nome dell'Armata Napoletana, fu pur grande il numero di coloro che si sforzano di
trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità. Che il nostro destino sia presto
deciso, o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi
affronteremo la nostra sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera e dignitosa
che si conviene ai soldati, noi andremo incontro alla gioia del trionfo o alla morte dei
prodi, innalzando l'antico nostro grido di "Viva il Re".
Il generale Tito Battaglini, nel suo libro "Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie",
vol. 2, pag. 63, riferisce circa i prigionieri: a Gaeta "la forza capitolata fu di 920
ufficiali con 25 generali, avendo altri tre seguito il Re a Roma, e di 10. 600 uomini di
truppa, fra i quali 800 ammalati e feriti". Durante l'assedio, sempre secondo il citato
generale, "le perdite, borboniche furono di 1079 uomini... fra cui 17 ufficiali... per tifo
decedettero 9 ufficiali e 307 soldati". La costruzione dell'ITALIA UNA E
INDIVISIBILE marciava su un oceano di cadaveri napolitani e di distruzioni infinite: i
mali di oggi sono figli di quelli di ieri. Ma era solo l'inizio. Il popolo delle Due Sicilie
avrebbe conosciuto ben altri orrori, ben altre distruzioni, per mano dei "fratelli
liberatori" discesi dal nord, degni emuli dei loro barbari antenati del V e VI secolo.
Ecco come lo stesso criminale di guerra Cialdini scrisse al suo degno compare il
Generale Fanti il 18 febbraio 1861: "I danni alla piazza eccedono le nostre previsioni.
Alcune zone ricordano Sebastopoli. Due o tre giorni di fuoco intenso, come era nella
mia intenzione di fare, avrebbe letteralmente distrutto Gaeta". Ma Francesco II, che i
parricidi unitaristi "o chiammavano scemo e Lasagnone" (ma annascunneva 'o core e
nu lione) (F. Russo, '0 surdato 'e Gaeta, XII), aveva capito che la resistenza a Gaeta
aveva i minuti contati e, quale Capo Supremo della fortezza e dell'esercito, essendosi
raggiunto lo scopo politico della resistenza all'aggressione, prese la decisione suprema
di trattare la resa per non far trucidare ormai inutilmente tutti i suoi soldati sotto le
fraterne bombe del Camillone e compari ("Primma 'e nce fa trattà peggio d' 'e cane, /
pr'mma 'e nce fa murí mm'ezo 'e turmiente, / isso dicette: No! Basta! Fernimmo!
Sarraggio Rre, ma ve so' patre, appr'mmo!) (F. Russo: '0 surdato 'e Gaeta, XXIX). Ma
le forze che, con fedeltà ed eroico furore, si erano battute sul Volturno, questa Waterloo
delle Due Sicilie, ascendevano ad oltre quarantamila uomini. Di questi circa dodicimila
non potendo trovar rifugio nella fortezza erano stati inviati in territorio pontificio con la
segreta speranza che i francesi che presidiavano "amichevolmente" quello Stato non
impedissero il ritorno nel Regno dalla parte degli Abruzzi per dar inizio alla resistenza.
Ma i transalpini erano alleati dei piemontesi per via della cessione del Nizzardo e della
Savoia avvenuta tra la fine del 1859 e il 1860, per la quale cessione i piemontesi
agognavano a un compenso. Perciò i francogalli erano nemici non tanto occulti delle
Due Sicilie insieme agli inglesi nemici dichiarati (... L'Inghilterra apertamente, e la
Francia sottomano, ci eccitano a finirla. Non si dia pensiero della diplomazia. Rimanga
a Gaeta o se ne vada il Re [Francesco II], noi dobbiamo senz'esitare andare a Napoli)
(lettera n. 1097 di Cavour a Fanti il 2 ottobre 1860, in Carteggio di Cavour, vol. III, pag.
11). Ma i Francesi li fecero prigionieri e senza tanti complimenti li spedirono in regalo
ai piemontesi.
DEPORTAZIONE DEI PRIGIONIERI
A Capua, da parte del Generale Enrico Morozzo Della Rocca, erano stati fatti altri
11.500 prigionieri, altri 2.600 dal Garibaldone in due tornate sul Volturno. Siamo perciò
ai quarantamila di cui il generale Fanti parla al suo astuto padrone nel dispaccio n. 2545
datato Napoli 19 novembre 1860, riportato a pag. 347 del terzo volume della citata
corrispondenza di Cavour: "Se V.E. non noleggia dei vapori all'estero e subito pel
trasporto, è impossibile uscire da questo labirinto ... ve ne vogliono ... altri pei 40mila
prigionieri di guerra". Costui ritorna sull'argomento nella successiva lettera n. 2580 del
25 novembre: " ... Mi pare che nella grande urgenza di molti trasporti sarebbe
necessario noleggiarne e contrattarne in Genova od altrove pel trasporto a Genova da
Civitavecchia o Terracina dei prigionieri di guerra Napolitani che rendono i
Francesi...". Tali lettere affermano due cose: che i prigionieri devono essere deportati al
nord e, implicitamente, che la flotta napolitana, regalata al nemico dai parricidi traditori
e fusa con quella piemontese (Decret fusion marine Napolitaine et Sarde émané ...)
(dispaccio di Cavour n. 2583 del 25 novembre 1860 al Vittorione), non ha equipaggi,
perché i marinai hanno disertato in blocco per raggiungere il loro legittimo Re a Gaeta.
A tali prigionieri bisognerà poi aggiungere i capitolati delle fortezze della Sicilia ultime
a cadere: Augusta, Milazzo, Siracusa e Messina (solo in quest'ultima 152 ufficiali e
4138 fra graduati e soldati; - v. C. Cesari L'assedio di Gaeta, pag. 172). Si arriva cosí
alla cifra di cinquantaseimila prigionieri citati da quel degno figlio di Caronte, il
generale Cialdini, nella polemica lettera del 21 aprile 1861 diretta al Garibaldone,
pubblicata sulla Gazzetta di Torino: "... Generale, voi compiste una grande e
meravigliosa impresa coi vostri volontari. Avete ragione di menarne vanto, ma avete
torto di esagerarne i veri risultati. Voi eravate sul Volturno in pessime condizioni
quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina e Civitella, non caddero per opera
vostra, e CINQUANTASEIMILA borbonici furono battuti, dispersi e fatti prigionieri
da noi, non da voi ... Nel vostro legittimo orgoglio, non dimenticate, o generale. che
l'armata e la flotta nostra vi ebbero qualche parte, distruggendo molto piú della metà
dell'esercito napoletano, e prendendo le quattro fortezze dello stato ...
Le Armate di Terra e di Mare delle Due Sicilie ammontavano infatti a oltre centomila
uomini, che bisognava calzare, equipaggiare, dotare di armi leggere, pesanti, di navi, etc
... La perdita di tali commesse, assegnate dal 1860 in poi solo ai nordisti, ha fatto
precipitare nel nulla la nostra industria che da allora non conta nemmeno come il due di
briscola. In qualunque Stato l'industria della armi, per quanto eticamente abominevole,
rappresenta fin dall'epoca degli Ittiti il fulcro di qualunque ricerca industriale e di
supremazia in tutti i campi. Nella nostra Patria, venuto a mancare tale volàno, era
inevitabile che si cadesse nel sottosviluppo economico e culturale con conseguente
oceanica emigrazione.
DEPORTAZIONE DEI GENERALI
Nella caduta di Gaeta erano stati fatti prigionieri 25 generali: Tenenti generali: Casella,
Ritucci, Salzano, Sigrist, Milon; Marescialli: Schelembri, Afan de Rivera, Tabacchi;
Brigadieri: Melendez, Marulli, Polizzy, Antonelli, Bertolini, Sanchez de Luna, Micci,
D'Orgemont, Pelosi, Lovera, Muti, Albanese, Palumbo, De Dominicis, Paterna,
Tedeschi e Vecchione. Già prima della resa di Gaeta si incomincia ad arrestare
generali precedentemente capitolati. La notizia vien data dal generale piemontese
Della Rocca in un telegramma del 2 gennaio 1861 al suo criminal superiore Cialdini:
"Sono stati arrestati cinque generali borbonici" (colonnello Cesare Cesari: L'assedio di
Gaeta, pag. 115). Il 18 febbraio 1861, cioè appena cinque giorni dopo la caduta di
Gaeta, il generale piemontese Fanti, capo di Stato maggiore generale nonché ministro
della guerra, scriveva a Cialdini: "Approvo che V.E. abbia mandato i prigionieri di
Guerra nelle isole". Era l'inizio delle deportazioni: isole, Livorno, Genova, Savona, poi
a piedi per i campi di concentramento piemontesi di Alessandria, S. Maurizio Canavese,
S. Benigno Canavese, Lombardore, S. Benigno di Genova, Fenestrelle e anche di
Milano. Ma già prima della resa di Gaeta era pure cominciato il calvario dei nostri
soldati prigionieri: " ... tra le parecchie migliaia di prigionieri, tramutati nell'Italia
superiore, benché tentati colla fame, col freddo in clima per essi rigidissimo, e, con
ogni genere, di privazioni, appena i tre o quattro sopra cento si piegarono ad arrolarsi
nelle milizie di un altro Re, e quasi tutti, all'invito, non fecero altra risposta, che questa
molto laconica: Il nostro Re sta a Gaeta" (La Civiltà Cattolica, serie IV., vol. IX pag.
304, 25 gennaio 1861) e a pag. 306 "i poveri fantaccini regnicoli che nella Cittadella di
Milano [l'odierno Castello Sforzesco, trasformato da fortezza militare in monumento
civile verso il 1898, N.d.R.], in questi rigori di verno, vestiti alla leggera come se
fossero di state a Mergellina, vivono di due once di riso" e a pag. 367: "Per vincere la
resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe
ricorso ad uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena
coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane
e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e
d'altri luoghi posti nei piú aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sí
caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi
negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie! E ciò perché fedeli al
loro Giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e
tosto o tardi l'otterranno". Il corrispondente ritorna, con parole ancora piú drammatiche,
sull'argomento prigionieri nel vol. XI, serie IV, 14 settembre 1861, pag. 752: ... i
Torinesi avevano corso un altro pericolo, di venire, cioè conquistati dai Napoletani e di
vedere la bandiera di Francesco II sventolare sulla torre di palazzo Madama. In Italia
... esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in
gran quantità, si stipano nè bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi
si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di
què spettacoli che lacerano l'anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli
infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada
come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in Via Assarotti
dove è un deposito di questi sventurati. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi
nelle carceri di Fenestrelle, equi la malesuada fames et turpis egestas li indusse a
cospirare; e se non si riusciva in tempo a sventare la congiura, essi 'mpadronivansi del
forte di Fenestrelle, e poi unendosi con migliaia di altri napoletani incorporati
nell'esercito, piombavano su Torino. Un OTTOMILA di questi antichi soldati
Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio, ma il governo li considera
come nemici, e, dice l'Opinione, che "a tutela della sicurezza pubblica sia dei dintorni,
sia del campo, furono inviati a S. Maurizio due battaglioni di fanteria". Ma si sa che
inoltre vi stanno a Guardia qualche batteria di cannoni, alcuni squadroni di cavalleria,
e, piú battaglioni di bersaglieri, tanto ne hanno paura! E cotestoro, cosí guardati e
malmenati, pensate con che valore vorranno poi combattere pel Piemonte! Eccovi in
che modo si fa l'Italia!". Intanto si va a caccia, con forsennata tenacia, di ufficiali
Napolitani: "la polizia ... per mettersi al sicuro che, in caso di una sedizione popolare
mancassero i capi militari atti a governarla ... arrestò di botto sei Generali
dell'esercito napolitano... spacciando di averli scoperti complici d'una tremenda
congiura; ed inoltre intimò a moltissimi ufficiali ... che dovessero costituirsi prigionieri
in varie castella ... ecco le centinaia d'innocenti oppressi e stretti in duro carcere".
IL GRANDE SATANA
Chi era il machiavellico e spietato Tigellino, il turpe proconsole che faceva arrestare
ufficiali e generali delle Due Sicilie? Un piemontese forse? NO! Era lo scellerato
rinnegato cerebroleso Silvio Spaventa di Bomba (Chieti), nominato, con decreto del 17
gennaio 1861 in piena resistenza di Gaeta, ministro di polizia dalla famelica cariatide
Carignano, obeso da medaglioni e collaroni alla maresciallo sovietico Jakubovskji
(dispaccio n. 2966 di Nigra nel citato carteggio: "La nouvelle administration sera
composée probable-ment demain. Poerio s'est chargé de proposer au Pr'nce les noms
des nouveaux Conseillers; il a proposé Romano à l'Interieur, Avossa, Justice, Spaventa,
Pol'ce, Imbriani, Instruction publ'que...). Su questo maganzese kapò, condannato a
morte da un tribunale del Regno, ma graziato da Ferdinando II, riferiamo un giudizio
dell'eroico cappellano, reduce da Gaeta, don Giuseppe Buttà CHE LO CONOSCEVA
PERSONALMENTE per averlo praticato per parecchio tempo (I Barboni di Napoli,
1877, vol. II, pag. 507): "Io lo conobbi questo superbo pezzente di Bomba ... Si vendicò
con perseguitare tanti onesti e valorosi uffiziali, capitolati di Capua e di Gaeta ... Lo
Spaventa salí a' primi posti nel nuovo stato del regno d'Italia, sempre maledetto da'
suoi stessi amici, se pure mai ne avesse avuti. Oggi, mentre scrivo, trovasi tra i Cesars
declassès ma egli, son sicuro, rivenderebbe la patria e l'anima sua a Satana per riavere
per un giorno, un'ora, un minuto di quel potere birresco per cui sembra nato".
Sentiamo quel che ne dice La Civiltà Cattolica a pag. 503: "A reggere la cosa pubblica
e rifare il Regno fu posto, come si sa, il sig. Silvio Spaventa, del quale si può ben dire
che regna e governa; poiché del Principe Luogotenente [cioè il Carignano, N.d.R.] e del
Segretario Generale Nigra appena è mai che si senta proferire il nome. Lo Spaventa,
che per molte parti è degno successore di Don Liborio Romano, procede con mezzi
molto diversi. Don Liborio avea sciolti i galeotti a centinaia e commessa loro la
custodia dell'ordine pubblico; e la sicurezza cittadina, guarentita dai Camorristi,
trionfava a quel modo che tutti sanno. Lo Spaventa ebbe ribrezzo di tale infamia, diede
la caccia ai galeotti liberati ... Ma per farsi perdonare queste severità, procurò di
offerire ogni quindicina di giorni, una bella ecatombe di realisti borbonici in sacrifizio
della rivoluzione fremente. E gli caddero opportunamente sotto la mano certe denunzie
di suoi cagnotti o di traditori, per dargli pretesto a carcerare, come cospiratori, il Duca
di Caianiello, monsignor Trotta, e qualche centinaio di uomini dabbene, con riserva di
trovare o fabbricare poi le ragioni giuridiche di condannarli.". Vediamo che cosa
profferisce del suo avo-zio la pronipote Elena Croce, che certamente doveva sapere
qualcosa dei vizi di famiglia: "La caricatura del persecutore di camorristi che assume,
sembianze di capo camorrista, elaborata a Napoli durante la Luogotenenza, acquistava
automaticamente, coi fatti di settembre, nuovo corso. Si disse che Spaventa, chiamati i
suoi sgherri napoletani, aveva dato dal suo ufficio, con un colpo di pistola, il segnale
perché la truppa aprisse il fuoco sui dimostranti, ed era restato a guardare
freddamente, dietro i vetri, fumando un sigaro". Lo dice ma subito dopo lo nega (Elena
Croce: Silvio Spaventa, Adelphi, 1969, a pag. 200). Il conte legittimista de Christen
dice "Monsieur Spaventa, ancien chef des camorristi de Naples". Eufemisticamente la
pronipote lo dice impopolarissimo (pag. 160). Una caricatura di Camillo Marietti, del 24
gennaio 1865, rappresenta questo "augel notturno, sepolcrale e tristo" con corpo e
zampe di rapace e testa con occhi di gufo. Ancora, nel 1863, all'epoca della Legge Pica
di famigerata memoria (legge terribile, dai procedimenti sbrigativi e sommari ...
strumento di dispotismo arbitrario e furibondo, secondo la Enciclopedia Italiana, voce
Brigantaggio) formava al Ministero degli Interni, con Pica e Peruzzi che tale legge
avevano ideato e firmato, una trimurti di scellerati delinquenti di Stato (Mmiezo a nui na
rètena 'e farabbutte / ca tradevano 'a Patria) (F. Russo: '0 surdato 'e Gaeta). Orbene,
costui, chiamato dal padrone piemontese C. Nigra a rapporto epistolare, cosí scriveva da
Napoli il 19 febbraio 1861 (in allegato alla lettera del Nigra a Cavour n. 3161 del 22
febbraio 1861):
"Eccellenza, Rispondo al suo pregevole foglio del 13 corrente. Sin dal mese scorso ho
mandato al Generale Della Rocca un ufizio, esponendogli le ragioni, per le quali io
aveva ordinato l'arresto di alcuni Generali del disciolto Esercito Borbonico. Glielo
accludo trascritto, e la prego di trasmetterlo a S.E. il Presidente dei Ministri ed al
Ministro della Guerra, perché potrà convincerli che l'arresto di quegli officiali non è
stato sotto alcun rispetto illegale, ed era reso indispensabile dalle condizioni
eccezionali, in cui versava il paese. Non avrei a dirle altro, se non sentissi il debito di
sottoporle che gli officiali arrestati non hanno il diritto d'invocare la speciale
protezione del ministro della guerra, e quelle garanzie, onde sono rivestiti i soli militari
riconosciuti dal Governo. Ed invero gli ufficiali, quando furono arrestati, erano in
questa condizione. Alcuni, ed erano pochissimi, avevano già fatto adesione al governo
del Re. Altri o ritornavano dagli Stati Pontificii ovvero forniti di congedo illimitato di
Francesco 2i venivan da Gaeta. Né gli uni, né gli altri possono essere considerati come
militari, e sotto la dipendenza immediata del Ministro della Guerra. Il grado d'ufficiale
e i diritti che ne derivano, non possono esser conferiti che da un brevetto firmato dal
Re. L'adesione che alcuni uffiziali avean fatto al nuovo ordine di cose, non dava loro se
non la facoltà di chiedere d'essere ammessi nell'Esercito Italiano. Il che si ricava da'
Decreti del 28 Novembre e del 9 dicembre 1860 per determinare la posizione dei
Signori Uffiziali, impiegati amministrativi, etc. procedenti dallo Esercito regolare dello
scaduto governo delle Due Sicilie, i quali giustificassero d'aver fatto regolare,
adesione, al nuovo ordine di Cose.
L'adesione, adunque non conferiva loro alcuna qualità. Era necessario che la
Commissione istituita disaminasse la loro condotta ed i loro requisito, e desse il suo
avviso, il quale quante volte fosse stato favorevole, sarebbe stato sottoposto
all'approvazione del Ministro della Guerra ed alla sanzione del Re. Gli altri officiali,
che tornavano da Gaeta o da Roma, non possono sotto alcun rispetto essere
riguardati neanco essi come militari riconosciuti dal Governo. A prima vista parrebbe
che si dovessero considerare come prigionieri di guerra. Questo Dicastero non crede
dover fare una minuta discussione su questo proposito. è certo però che il Ministero
della Guerra non ha preso verso di loro alcuno di quei provvedimenti che soglionsi
verso i prigionieri di guerra adoperare, e quindi ha dimostrato col fatto che egli non
riconosceva questo carattere negli officiali reduci da Gaeta e da Roma. Quanto a me,
credo che costoro, anziché prigionieri di guerra, possano essere ravvisati come ribelli
al Re ed alla Nazione; perocché persistettero a battersi dopo il plebiscito; dopo che il
Re alla testa dell'esercito era venuto a prender possesso di questa parte d'Italia, dopo
che il governo nazionale era costituito di fatto e di dritto su tutto il territorio di queste
Provincie.
Lo stesso Comando della Piazza di questa città non ha ravvisato sotto altro aspetto la
condizione di cotesti officiali. Ed in vero, quando questo Dicastero lo richiedeva che
provvedesse a' mezzi di sostenerli in carcere, si rifiutava con uficio del 7 Gennaio di
questo anno, dichiarando di non poter riconoscere il carattere di ufficiali negli
arrestati.
Né dissimile è stato l'avviso del Direttore della Guerra, come appare, da un suo ufficio
del 14 detto mese.
Non tralascierò di scrivere al Generale della Rocca, perché avvalori presso il Ministro
della Guerra della sua autorità le ragioni che giustificano il provvedimento di rigore
contro i generali del disciolto esercito, e che egli medesimo aveva approvato".
Vi sono infamie che non bisogna dimenticare e non stancarsi mai di ricordare
come pure non bisogna mai dimenticare l'eroismo di quelli che tentarono l'estrema
difesa della Patria con sacrificio della vita contro le carogne piemontesi e
garibaldine. Questo furfante matricolato, datosi al nemico con tutta l'anima, vero clone
del famigerato Manhès di trucida memoria, con le sue disquisizioni apparentemente
logiche e dotte non solo si metteva sotto i piedi il trattato della resa di Gaeta, con cui
Francesco II aveva tentato di garantire un minimo di sopravvivenza ai suoi soldati ed
ufficiali, ma ne diventava pure l'aguzzino. è questo il motivo per cui pubblichiamo per
intero la lettera summenzionata, perché il lettore possa rendersi conto di che briganti
(verissimi) si impadronirono del nostro Stato. Ma già in un altro precedente rapporto dei
10 gennaio 1861 al Nigra (lettera n. 2961 del citato carteggio) costui afferma: "... ho
deliberato di prendere energici provvedimenti verso alcuni ufficiali del disciolto
esercito Borbonico... Era urgente ricorrere a mezzi energici specialmente contro gli
Uffiziali Superiori, perché piú pericolosi per la loro influenza sovra l'esercito sciolto
che era il nerbo delle reazioni. Ho creduto ordinare di arrestarli ed inviarli in Alta
Italia ... Elenco dei Generali e Colonnelli del disciolto Esercito Borbonico arrestati per
ordine di questo dicastero, e dei quali alcuni sono già partiti: Sig. Antonio Polizzy,
Brigadiere; Sig. Girolamo De Liguori, idem; Sig. Giuseppe Ruggiero, idem, Sig.
Gaetano D'Ambrosio, Colonnello; Sig. Nicola Gherardo Piazzini, Colonnello al ritiro;
Sig. Generale Bartolo Marra; Sig. Generale Andrea Marra; Sig. Generale Giuseppe
Palmieri; Sig. Generale Barbalonga".
GLI ALTRI COMPARI
Allo Spaventa davan man forte il Carignano, il Della Rocca e Farini (dispaccio n. 2967
del 16 gennaio 1861 del citato carteggio): "L'arrestation des Generaux et Officiers a été
faite par Farini de concert avec le General Della Rocca; ils sont plus ou moins
compromis par correspondances et discours, aujourd'hui je les expédé à Génes. Je
désire que de Turin on nous laisse liberté d'action..." nonostante che il ministro della
guerra gen. Fanti (n. 3046 ibidem), per evidenti motivi politici, scrivesse a Cavour "...
questo Ministero non riconosce a quella Autorità alcuna facoltà per comandare siano
arrestati generali e Ufficiali...". Superflua la traduzione, tanto è lampante. Possiamo
osservare che gli invasori si esprimono quasi sempre e solo in francese. Che fratelli
d'Italia!! Che comunanza di linguaggio! Non aveva torto il nostro popolo a ritenerli
stranieri e a chiamarli francesi e a riversare contro di loro tutto l'odio che dal 1799
veniva nutrito per tutto ciò che sapeva di transalpino.
Il 6 giugno 1861 improvvisamente muore il tessitore dell'invasione, il conte dracula
Cavour. Qualcuno mormora che sia stato avvelenato da quel brigante di Napoleone III. I
banditi si sa si sbranano tra loro per la divisione del bottino. Il sospetto è legittimo
perché quel volpone era intenzionato a mettere sul trono di Napoli suo nipote, il figlio di
Murat. Al Cavour succede Ricasoli. Le cose non cambiano, il lupo cambia il pelo ma
non il vizio, anzi si va sempre piú duri. Sentiamo che cosa riferisce ancora in proposito
La Civiltà Cattolica del 21/9/1861 (Serie IV, Vol. XI, pag. 684) in riferimento al mese
di agosto: "... Del resto, se Ricasoli non teme dei Generali ed Uffiziali superiori, perché
ne fece, per soli sospetti, arrestare in Napoli oltre a TRENTA i quali furono condotti a
Genova sopra un vapore e colà impediti dal ritornare nel Regno?" La notte dell'8
agosto 1861 ci fu una retata ancora piú nutrita: " ... furono arrestati un centinaio di
personaggi, contro i quali il dispotismo piemontese sarebbe assai impacciato se fosse
costretto a produrre un tenuissimo indizio di prova che macchinassero qualche cosa
colpevole; ma che, per la legge dei sospetti, furono trattati come rei d'alto tradimento.
Quattro Marescialli, due Generali, sette Brigadieri, due Colonnelli, due Luogotenenti
generali, un Maggiore, tre Capitani, un Luogotenente, ed altri uffiziali in numero di 35,
di recente assaliti nelle loro case, suggetti ad una perquisizione effettuata nei modi piú
brutali, poi condotti al forte del Carmine, e il giorno appresso, in mezzo a file di
soldati, come si userebbe con ribaldaglia da galera, scortati al porto, cacciati sopra un
bastimento con qualche centinaio di soldati sbandati caduti in mano a' piemontesi, e
spediti a Genova... tra i quali son da notare il Fergola, i due Afan de Rivera, il Sigrist,
il cui delitto evidentemente consiste nella fedeltà e nel valore con cui difesero i diritti
del loro Re Francesco ... In questo frattempo cinque altre grosse terre del Regno
venivano barbaramente messe a fuoco e sangue, poi diroccate e distrutte dal furore
piemontese ... Montefalcione, San Marco e Rignano sono anch'essi un mucchio di
rovine fumanti e sanguinose, che gridano vendetta" (La Civiltà Cattolica, vol. XI, serie
IV, 1861, pag. 617). Qualche pagina dopo (pag. 690) il periodico precisa ulteriormente i
fatti: i piemontesi carcerarono nella città di Napoli piú di QUINDICIMILA persone;
condussero per forza a Genova, in una sola volta, piú di TRENTA Uffiziali superiori
dell'esercito napoletano; esiliarono o costrinsero colle vessazioni poliziesche ad
esulare presso che l'intera aristocrazia; il popolo è dato in balía ai fuoriusciti di mezza
Europa, che sotto il nome di garibaldini, armati di pugnali e di stili, convennero colà,
sotto la protezione dei Don Liborii e dei Cialdini, come gli sparvieri alla preda.
L'Europa sa ancora che nella fedelissima città di Napoli vi sono certi cannoni sui
forti, certi cannoni sulla piazza Reale, certi cannoni che infilano Toledo, certi
cannoni in tutti i siti, certi battaglioni sempre armati, certe pattuglie sempre in giro,
certi stili sempre affilati, certa sbirraglia sempre in moto, certi argomenti in somma di
unità italiana e di concordia fraterna che, se li avesse usati il Re Francesco II, mai
non sarebbero entrati in Napoli né Garibaldi né Vittorio Emanuele...... E a pag. 726:
"... i due carnefici dell'Italia Settaria, il Cialdini e il Pinelli, stanno mostrando nel
Regno di Napoli l'effetto della Massoneria ai popoli conquistati. LE MIGLIAIA DI
TRUCIDATI col grido sulle labbra di "Viva Dio e Francesco Il nostro Re", e le
CENERI di MONTEFALCIONE, di CASALDUNI, di AULETTA e di
PONTELANDOLFO, attestano quali s'eno le dolcezze che questi cavalieri della libertà
ritengono in serbo..."
Gli hitleriani non giunsero a tanti eccidii nella Polonia conquistata.
Che calvario infinito, che campo di concentramento, che cimitero sconfinato per la
nostra gente il periodo dal 1860 al 1868. Se i sindaci del Sud conoscessero almeno la
centesima parte dei fatti che stiamo narrando, se serbassero in cuore un minimo di
dignità e di orgoglio napolitano, se mente e sentimento fossero per la propria gente,
provvederebbero patriotticamente a purgare le loro città dai nomi di quelle
carogne assassine. Essi, i piemontesi, rifiutarono per ben due volte, perché avevano in
mente la preda, di dar luogo ad una confederazione tra Napoli e Torino nel comune
interesse dell'Italia, confederazione che sia Ferdinando Il che il figlio patrocinarono nel
1848 e nel 1860. Ecco le parole di Ferdinando II: "Noi consideriamo com'esistente di
fatto la Lega Italiana, dacché l'universale consenso dè Principi e dè popoli della
Penisola ce la fa riguardare come già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma
il Congresso che Noi fummo i primi a proporre; e siamo per essere i primi a mandarvi
i Rappresentanti di questa parte della gran famiglia italiana". Ma Carlo Alberto rispose
che non era tempo di trattare o di conchiudere Leghe, allo stesso modo che
successivamente farà il Camillone.
Come fu diversa l'unità a cui pervennero i Tedeschi! Nel 1870, dopo la sconfitta di
Napoleone III a Sédan ad opera del Bismarck, tutta la miriade di staterelli compresi tra
il Reno e l'Elba si uní spontaneamente intorno alla Prussia, dando luogo al federale Il
Reich. Da allora la Germania ebbe un'ascesa culturale ed economica tale che le disfatte
di due guerre mondiali non hanno minimamente intaccato. Che cosa è avvenuto da noi
quando il magnifico verbo dell'unità e del liberal progresso si disvelò? " ... nun nce sta
manco cchiú nu mandarino! / Nun nce sta manco cch'ú na schiocca 'e rosa, / manco 'e
ffronne nce stanno, int' 'o ciardino! ... Tutto è distrutto! E tuttuquante 'o ssanno..." (F.
Russo: '0 ciardino abbandonato).
Abbiamo cioè subíto stragi e rapine infinite, perso l'indipendenza, la moneta, le buone
leggi filtrate da ben ottocento anni di ininterrotta unità statale, la nostra bandiera, ma
soprattutto l'orgoglio napolitano che ci faceva decidere del nostro destíno: a tutto ciò fa
da buon peso una emigrazione oceanica: le conseguenze nefaste sono sotto gli occhi di
tutti.
CAMPI DI CONCENTRAMENTO
Abbiamo deciso di visitare uno dei Gulag in cui furono relegati i nostri fanti. Abbiamo
optato per la fortezza di Fenestrelle, questa Grande Muraglia della Val Chisone,
abbarbicata ad un costone del monte Orsiera (m 2893). Essa è composta da un
imponente sistema difensivo costituito dal forte S. Carlo, forte Tre Denti, forte Elmo e
forte delle Valli, collegati fra loro da una scala coperta di 3996 gradini. Per la sua
costruzione occorsero quasi due secoli. Fu iniziata nel 1727 dopo la pace di Utrecht
(1713), quando i piemontesi vennero in possesso di quel territorio, precedentemente
appartenuto alla Francia. Avremmo potuto fare una visitina anche a S. Maurizio
Canavese, San Benigno Canavese, a Lombardore (Quando nel settembre del 1861 il
ministro Ricasoli e Bastogi lo visitarono vi erano rinchiusi oltre 3.000 soldati
borbonici, tenuti come PRIGIONIERI) (Rivista STORIA RIBELLE, n. 1, 1995), al forte
S. Benigno di Genova, dove i prigionieri venivano "Gittati come branchi di bestie", ad
Alessandria dove "una parte dei prigionieri fu ... chiusa nella cittadella e cacciata in un
quartiere sotto strettissima guardia, che non li lasciava uscire neanco per le necessità.
Entro quattro gironi di mura, con passi e contrafossi d'acqua corrente e rivell'ni e
mezze lune tutto intorno, vedeansi le sentinelle su per le scale e nè corridoi il dí e la
notte..." (La Civiltà Cattolica, Serie IV, Vol. XI, pag. 589), tutte immagini da seconda
Guerra Mondiale. Ma, dopo centotrenta e passa anni, avremmo ritrovato ben poco.
FENESTRELLE, FENESTRELLE
Siamo dunque arrivati alla fortezza del
deserto dei tartari, in partibus infidelium, in
una giornata di pioggia torrenziale che
peggio non poteva essere. Le cime dei
monti, tutt'intorno, mese di giugno, sono
ancora imbiancate di neve. Il mesto
pellegrinaggio conduce alla ricerca
dell'anima dei nostri padri. Gli scalini che
portano in vetta alla fortezza ti mozzano il
fiato per la fatica, sono veramente tanti,
occorre un allenamento da scalatori. Ci
fermiamo ad un terzo della scalata vicino
alla Garitta del Diavolo, da cui si può
ammirare tutto il panorama della Val
Chisone verso Pinerolo da un lato e fino al
Sestriere dall'altro. Silenziosi e cupi ascoltiamo la Guida che, con voce monotona, ma
chiara, sotto il fragore della pioggia e l'urlo del vento umido comincia a snocciolare
notizie su questa Lubianka sabaudo-siberiana all'ennesima potenza, dove l'inverno dura
quasi dieci mesi e il vento, la pioggia, la neve e il ghiaccio la fanno da padrone. I nostri
occhi frugano le pietre, i muri alla ricerca di antiche tracce, tracce napolitane. Nella
fioca luce del giorno tutto è spettrale. Una scritta quasi sull'ingresso "Ognuno vale non
in quanto è ma in quanto produce" ci folgora, ci lascia di sasso. Ci ricorda che qui c'era
un inferno: novelli Dante nella dolente città infernale, a testa alta come lui entriamo nel
luogo degli strazi e del grido di dolore (quello vero, non quello metaforico, falso e
propagandistico messo in bocca al Vittorione stragista dal suo primo ministro). Dicono
che la scritta fu apposta durante la Il guerra mondiale, ma forse è lí da sempre, fin da
quando la fortezza dei tartari assunse il sinistro ruolo di luogo di relegazione e di
sterminio. Il brigante corso, Napoleone, esperto oppressore, vi relegò finanche un
principe di Santa Romana Chiesa, il cardinale Bartolomeo Pacca, segretario del papa
Pio VI, fatto morire in cattività a Valenza nel Delfinato il 29/8/1799.
CALCE VIVA
Ci rendiamo conto, e ce ne danno conferma le parole della Guida, che da qui nessun
Conte di Montecristo poté mai evadere: la vita nella fortezza, anche per i piú robusti,
non superava i tre mesi. Inoltre, palle di ferro di 16 kg ai piedi tenevano prigionieri i
prigionieri; si usciva dalla fortezza, libertà nella morte, solo per essere dissolti in una
grande vasca di calce viva. I tedeschi successivamente affinarono la tecnologia: forni
crematorii invece dell'ossido di calcio.
Ecco quale fu, orrore!, la tragica sorte, decretata dai mostri savoiardi, di quasi tutti gli
ufficiali del Regno delle Due Sicilie deportati (a cui collaborò indefessamente il signor
Silvio Spaventa) e di gran parte della nostra Armata, a parte quelli che furono
immediatamente fucilati dopo la resa, come accadde a Civitella del Tronto, per mano
del rinnegato generale napolitano Mezzacapo, uscito dai ranghi della Nunziatella.
L'ascesa delle anime dei nostri poveri soldati verso l'aldilà veniva facilitata dalla "scala
verso il cielo " coperta, che dal fortino Carlo Alberto (a 1154 m) come un gigantesco
rettile dormiente s'arrampica verso l'alto fino a 1754 metri. Intorno, muraglioni spessi
parecchi metri che dovevano resistere ad eventuali assedii. Lí e negli altri campi di
concentramento "Le vittime dovettero essere migliaia anche se non vennero registrate
da nessuna parte. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo. Morti di
nessuno. Terroni" (Lorenzo del Boca, Maledetti Savoia, ed. PIEMME, 1998, pag. 146).
L'orrendo genocidio ci porta a gridare insieme al poeta
"O VENDETTA DI DIO PERCHÉ PUR GIACI ?"
Pochi sono stati, eccetto gli storici borbonici, quelli che hanno parlato dei crimini
savoiardi, come ad esempio il giornalista piemontese Del Boca. Il tanto decantato libro
del De Cesare, La Fine di un Regno, tace assolutamente. Solo questo fatto deve metterci
in guardia circa la sua presunta obiettività. Perciò leviamo riverenti la mente a Del Boca
che dedica ben 4 pagine del suo libro ai campi di concentramento sabaudi.
Il maledetto 1860 fu non solo il dramma di una dinastia, ma la tragedia di tutta una
nazione.
Il castello di lurido retoricume e becere menzogne sotto cui quel cadavere sanguinolento
fu sepolto comincia a sfaldarsi.
 
 
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