DAUNIA DUE SICILIE
  Le industrie alimentari nel regno
 

 

LE INDUSTRIE ALIMENTARI
 tratto da "Le industrie del Regno di Napoli" di Gennaro De Crescenzo
 
La pasta
 
La storia dei pastifici nel Regno di Napoli è una storia profondamente legata ai loro prodotti, a quegli spaghetti o a quei maccheroni che sono diventati il simbolo di Napoli, dei meridionali e di tutti gli italiani nel mondo.
La storia del cosiddetto "oro bianco" è nello stesso tempo storia del costume e della società e se le immagini dei venditori di maccheroni, dei "maccaronari", appartengono ad un'iconografia ricorrente, non è altrettanto conosciuta la storia dei pastifici sotto l'aspetto economico-industriale.
Già dall’antichità si hanno notizie di laganae (lasagne o fettuccine di pasta) arrivate forse dalla Calabria e già conosciute dai Greci che abitavano Sibari e Crotone: di esse era golosissimo lo stesso Mecenate secondo quanto ci riferisce il poeta Orazio.
Ma, secondo una diffusa tradizione, dopo l'occupazione normanna di Amalfi nel XII secolo, alcuni maestri locali, già in contatto con i mercati e i mercanti orientali, sarebbero sfuggiti agli invasori rifugiandosi presso Gragnano, tra i monti Lattari, continuando lì la tradizione delle paste.
Da Gragnano si sarebbero spostati nella zona della futura Torre Annunziata perché più adatta al commercio per mare e verso la città di Napoli, che iniziava la sua crescita progressiva.
Alcune leggende riportate anche da Matilde Serao riferiscono di un'origine napoletana dei "vermicelli" che sarebbero stati inventati intorno al tempo di Federico II di Svevia da un mago che abitava in una grotta al vico dei Cortellari, nel seggio di Portanova: un tale mago Chico, infatti, era impegnato nei suoi misteriosi esperimenti tra fumi e tracce di un liquido rosso che sembrava sangue; la moglie di uno sguattero della corte di Federico II, tale Giovannella di Canzio, rubò al mago il suo segreto: si trattava di maccheroni con il sugo di pomodoro (che sarebbe arrivato a Napoli solo qualche secolo dopo); la nuova ricetta fece la felicità della corte e, ben presto, di tutto il popolo napoletano costringendo alla fuga per la rabbia il mago-pastaio.
E’ certo, invece, che tra i secoli XVII e XVIII i pastifici napoletani raggiunsero una fama indiscussa e la corporazione dei "Maccaronari" era tra le più potenti in città, tanto da impedire l'importazione dai centri vicini1.
Dalla fine del XVIII secolo, però, il livello di consumi fu così alto che fu necessario acquistare pasta anche da Portici, Resina, Gragnano e, soprattutto, Torre Annunziata. Quest'ultima città vesuviana diventò uno dei centri commerciali più importanti di tutto il Regno assorbendo nella produzione della pasta tutta la manodopera locale e parte di quella dei dintorni. Fino al Cinquecento i produttori di pane erano anche produttori di paste e la gramolazione (l'impasto della semola di frumento con l'acqua) doveva avvenire prima che l'acqua si raffreddasse ritagliando rapidamente tagliatelle, gnocchi o cappelletti. Per questo motivo la pasta non era diffusissima come alimento. Dagli inizi del Seicento, invece, si cominciò a meccanizzare la produzione con torchi e impastatrici e a Napoli e nel napoletano nacquero le prime vere e proprie fabbriche di pasta venendo progressivamente incontro all'esigenza di consumare alimenti a base di cereali, in conseguenza della crisi di produzione orticola e dell'incremento demografico che rendeva difficoltoso il consumo di carni. La "minestra maritata", piatto tipico che univa, appunto, verdure e carni, fu sostituita da maccheroni e spaghetti, con motivazioni di carattere pratico (perché conservabili e trasportabili) e nutrizionale (nacque praticamente così la famosa "dieta mediterranea").
Per tutto il Seicento, comunque, si ritrova spesso un uso successivamente abbandonato della pasta: veniva servita alla fine del pranzo come dolce, magari “semmenate de zuccaro e cannella (cosa da fa sperire le perzune)” seguendo le parole del poema “Tiorba a taccone” di Filippo Sgruttendio nel capitolo dedicato ai “maccarune donate da Cecca”2.
Nel Settecento ormai i maccheroni erano diventati un vero e proprio piatto nazionale. Nella stessa cucina reale borbonica quasi quotidianamente si consumavano ravioli, vermicelli, tagliolini al burro, lasagne, maccheroni con le salsicce o con i classici pomodori tanto da rendere necessaria l’installazione di una “maccaroneria” di proprietà reale con macchine per la produzione meccanica fin dal 1776. L’ultimo Re di Napoli, del resto, Francesco II di Borbone, veniva chiamato affettuosamente “lasa” dal padre Ferdinando II.
Nella prima metà dell'Ottocento si avvertì l'esigenza di un nuovo cambiamento per migliorare la quantità e la qualità della produzione e a questa esigenza venne incontro la politica economica che i Borbone seguivano in quegli anni proteggendo e stimolando le industrie locali.
Sempre in quegli anni fu favorita così la pubblicazione di una sorta di manuale per l'organizzazione di un "novello e grande stabilimento di paste alimentari per togliere l'uso abominevole di impastare coi piedi" sostituendolo con "l'uomo di bronzo", una nuova impastatrice con lamine di bronzo inventata a Napoli e alcune fabbriche hanno conservato un sistema simile di produzione che rende la pasta meno liscia e quindi più adatta a trattenere il condimento3.
Nello stesso testo si davano indicazioni sulle macchine ritenute indispensabili ad un pastificio moderno, sulle attrezzature e sulle norme necessarie per garantire l'igiene, la produttività e una proficua commercializzazione4.
Comunque, nonostante l'alto numero di fabbriche piccole e tradizionali, i pastifici della provincia di Napoli raggiunsero degli ottimi risultati commerciali in Italia e all'estero per la notevole presenza di mulini adibiti alla produzione per il mercato, per la tendenza a realizzare impianti a ciclo completo (dal grano alla pasta) e grazie all'investimento di buoni capitali5.
Nel 1856 proprio la produzione delle paste napoletane fu premiata all'Esposizione Universale di Parigi anche se con una rocambolesca partecipazione: il legato a Parigi, Luigi Cito, infatti, raccontò di aver consegnato alla commissione una "cassetta con collezioni di paste" che aveva portato "ad uso suo", pensando, come realmente avvenne, che avrebbero "ben figurato in mezzo alle paste d'Italia e di Francia"6.
Negli stessi anni la produzione si era diffusa in tutto il Regno: a Napoli e a Gragnano, dove c'erano "81 macchine per manifatture di maccheroni e 28 macchine per molire i cereali"7, a Torre Annunziata, a Ischia, con una fabbrica per "paste lavorate" che dava lavoro a 20 persone8, a Rapolla, presso Melfi, con 40 operai9; dalle Puglie alle Calabrie, soprattutto nelle zone di Bari, Molfetta, Barletta, Crotone, Cosenza e Catanzaro10.
Circa un centinaio, complessivamente, gli stabilimenti e in molti si erano diffusi ormai gli impianti azionati a vapore11.
I famosi maccheroni venivano esportati praticamente in tutto il mondo, a New York come a Rio de Janeiro, a Odessa, Algeri, Atene, Algeri, Malta, Pietroburgo o Amburgo12 e ancora oggi sono il prodotto italiano più conosciuto in ogni angolo del pianeta, anche se ormai i rari stabilimenti di Torre Annunziata, di Gragnano o della provincia di Napoli hanno perso tutti i loro primati.
 
 
I liquori
 
Tra le altre industrie alimentari ricordiamo anche alcune industrie di minore importanza ma pure significative per lo sviluppo che avrebbero avuto o che avrebbero potuto avere.
Si contavano diverse distillerie a Napoli, a Salerno, dove c'era una buona industria di prodotti ricavati dal sorgo cinese (alcool, rhum, farina di semi)13, a Mugnano del Cardinale con la "distilleria di spirito" Borel14, a Potenza, con 11 operai e la capacità di esportare nella capitale15; altre industrie "dello spirito dal vino" si potevano trovare presso Caserta, ad Aversa, presso Nola, a Cicciano (13 stabilimenti), a Marigliano (5 stabilimenti) con prodotti esportati in Inghilterra, Francia e America. I nostri lambicchi, del resto, “vincevano in perfezione quanti ne furono immaginati in Francia,in Inghilterra e in Germania”16.
Numerose, poi, erano le fabbriche di spirito "tolto dal granone di farina"17 e siccome molta povera gente si nutriva proprio di granone in molte province del Regno, Francesco II ne proibì l'utilizzazione come materia prima nella distillazione degli alcool per evitare che aumentasse il prezzo18. Gli industriali colpiti protestarono con il governo poiché, secondo la loro tesi, la quantità di granone usato per la distillazione era comunque esigua e, di fronte alle conferme della proibizione (anche da parte del successivo governo italiano), spesso inumidivano illecitamente i granoni per dimostrare che erano guasti e li distillavano19.
Si potevano contare, poi, circa dieci birrerie: la prima di esse fu fondata con tecnici e macchine bavaresi intorno al 1850 nei pressi di Capodimonte da Luigi Caflish, proprietario dei famosi caffè. Varie anche le fabbriche di liquori dolci, secondo la moda dell'epoca, fra cui il "Centerbe" di Beniamino Toro di Tocco Casauria (Pescara), le essenze di agrumi in Calabria, della locale Società Economica, le acquaviti e i rosoli (anisetta, curacao, melarancino o l’orzata) di Genovais, di Tomas e Costan a Rodi in Capitanata (Maraschino, Vainiglia, Perfetto Amore, Specifico per la Salute e Essenza di Puntsch i loro prodotti più famosi) o di Giovanni Di Cola da Ortona a Mare (Rosa, Diavolone e Cedrato le sue specialità).
Già molto diffuse le essenze di agrumi: «e varie specie di agrumi che per natura di suolo e di clima abbondevolmente si coltivano lungo le contrade marittime del Reggitano distretto, offrono il destro a quelli industriosi naturali di estrarre dalla frutta (bergamotto, arancio, portogallo, limone, cedrato) l’olio volatile che chiamasi essenza»; un Nicola Barilla e un Luigi Auteri di Reggio avevano inventato una macchina a tale scopo.
A Napoli, poi, si era diffuso un liquore chiamato “elisir” e molto simile al nostro amaro grazie all’invenzione (sulla base di un’antica ricetta) del proprietario di uno dei caffè più famosi della città a piazza Dante. Nello stesso locale, agli inizi dell’Ottocento, il greco Demetrio Gallo fu uno dei primi a portare in città l’uso e l’industria del caffè come bevanda (acqua e caffè bollivano insieme in una pentola di terracotta servendolo poi in misurini di forma conica anch’essi di terracotta). L’acquavitaro, del resto, era un mestiere abbastanza diffuso: con una cassetta legata al collo, illuminata da una candela e piena di bottiglie e di prese (bicchierini), passava per le vie della città per tutta la notte offrendo ai suoi clienti centerbe, rumme, annese, sambuchelle, stomateca, ammennola amara, cafè o mescolanze (gli attuali cocktail).
Più di cinquanta rosoli diversi (spesso frutto di antiche ricette familiari) venivano prodotti già alla fine del Settecento e puntualmente serviti alla fine dei pranzi napoletani.
L’abitudine di bere bibite anche non alcoliche fredde faceva fiorire il commercio della neve durante tutto l’anno: in mancanza di ghiaccio e di frigoriferi, dalle montagne vicine la neve veniva raccolta e conservata in fosse profonde coperte di paglia o di frasche per raffreddare l’acqua spesso unita a limone, arancia o sambuco. Ancora più diffusa era l’abitudine di bere limonate preparate dagli “acquaiuoli” con l’acqua “zurfegna” o “suffregna” (sulfurea e ferruginosa) raccolta dalle fonti ancora esistenti presso Santa Lucia e il Chiatamone e conservata nelle caratteristiche “mummare” (anfore di terracotta)20

 
I vini
 

 
Anche la produzione vinicola andò lentamente industrializzandosi come dimostra un esempio significativo: dopo i trattati di commercio stretti con gli Stati Uniti d'America, l'esportazione del vino aumentò dalle 989 botti del 1845 alle 2934 botti del 1846; lo stesso aumento si ebbe per un altro tipo di produzione, quello della frutta secca21.

Già Plinio, del resto, aveva scritto la storia delle nostre viti, della grande varietà delle nostre uve e dei metodi che caratterizzavano la produzione dei vini ma “un tempo, e ne sono fresche le memorie, noi arrossivamo di vestir pannine o portar cappelli o avere arnese qualunque che non fosse opera di mani straniere: ed avevamo vergogna ad imbandire le nostre mense di vini indigeni. Re Ferdinando imprese a vendicare l’onore delle nostre vigne nelle sue Reali Delizie, ogni cura adoperando per avere vini fatti come l’esperienza, di utili metodi sagace maestra, e le novelle teoriche della chimica consigliavano. I nostri vini con sommo accorgimento destinati dal Monarca a rendere più splendidi i suoi conviti e levati a cielo dai più illustri ospiti stranieri scossero la nostra scioperata indolenza e presto non fu gran possedente il quale non amasse segnalarsi con quelli delle sue terre. La quale bella gara sarebbe stata assai più profittevole se non si fosse desto in molti il desiderio d’imitare con le nostre uve or l’uno or l’altro liquore straniero […] perché le vigne le quali danno il delizioso Geraci o il Capo di Leuca non daran mai né il Bordò né il Borgogna… Ma già gli amatori lodano a cielo il bianco del Ponte della Valle o dell’arse terre che copruono le estreme falde del Vesuvio o i vini bianchi della famosa Capri e quelli del dolce monte di Posilipo dolcemente generosi, pieni di gradevole profumo e perciò da un greco poeta appellati Vini di Giove, ristoratori della salute e rallegratori del cuore”.
Un’apposita Società Enologica era stata istituita per raccogliere notizie sui siti e sull’estensione delle vigne, sulla quantità di vino che esse producevano, sul gusto e sul profumo che distinguevano un vino dall’altro, sui possibili trapianti di uve, sui metodi di coltivazione e di produzione, sulle ragioni che rendevano i vini più o meno pregiati, sui metodi di trasporto per mare e per terra. La Società curava anche la pubblicazione di un Giornale Enologico per approfondire gli stessi temi e possedeva delle cantine in proprio per le sperimentazioni tra le vaste e antiche grotte di Posillipo e a Pozzuoli con oltre trentamila botti. Tra le qualità di vini più famose a Napoli e in provincia “un vino eccellente chiamato greco, un vino leggerissimo acquoso che la minuta gente chiama marano, un altro assai dolce detto lambiccato; e ci viene udito che un tempo si facea la malvasia a Torre del Greco e che alcuni proprietari fanno del buon moscato a Posillipo”. Il vino greco, assai pregiato e resistente, era di colore roseo e i vitigni per produrlo si trovavano principalmente alle falde di Somma e del Vesuvio; a Portici e a Resina veniva anche definito lagrima (o mezza lagrima unendolo ad altre uve bianche); a Portici, a Resina e a Torre del Greco erano pregiati anche l’aglianico e il piede palumbo. Da un elenco molto parziale di uve che venivano coltivate solo nei dintorni di Napoli si evidenzia già la grande varietà varietà delle uve stesse (e dei corrispettivi vini). L’impoverimento dell’agricoltura e la vera e propria estinzione di molte varietà di produzioni locali è uno dei problemi più attuali del nostro territorio. Tra le uve più volte citate si ricordano, ad esempio, l’aglianica, la pignola, la dolcetta, la pie’ palumbo, la S. Niccola, la cavalla, la colagiovanni, la tintora, l’olivella, l’olivella bastarda, la parasacco, la forcinola, la sanseverina, la castagnara, la sanfrancesco, la lugliesa, la cascaveglia, la mangiaverra, la S. Francesco22
 
L’olio
 
Molto diffusi erano i trappeti, stabilimenti per la spremitura delle olive. Soprattutto in Puglia si cominciavano ad organizzare a livello industriale anche per un’esportazione diretta quasi in tutto il mondo: ogni anno si esportavano circa 200.000 salme di olio per un valore di 5.000.000 di ducati. Nei confronti del Levante e del Nord Africa si utilizzava il vantaggio di poter contare su un raccolto all'anno, dato che i raccolti biennali di Puglia e Calabria si alternavano23.
“Chi non loda gli oli dei monti Tifatini, dell’amena Sorrento e delle memorabili rupi di Capri? Le alpestri rocce di Venafro danno olio che fa ricordare il vanto loro attribuito dal cantore di Venosa Da Popoli alle rive dell’Adriatico non ci ha picciola terra che non dia olio squisitissimo. Nelle Calabrie, dove la natura fa pompa di tutte le sue ricchezze più che in altra parte ella nostra penisola […] quei vasti uliveti sorgono quasi sempre sui colli nell’esposizione più acconcia a favorire la vegetazione [...], somma è l’arte perché nel ricolto niuna oliva vada perduta e niuna offesa al tronco ed ai rami si faccia. Dal frutto che, ove non ispiccasi a mano ed a varie riprese lasciasi cadere o sopra strati di felci secche o sopra aie che si apparecchiano sotto gli alberi […] ed estraggonsi dolcissimi oli fra i quali è avanti a tutti rinomato quello delle terre reggine, primo onor delle mense”. Sono sempre più numerosi oggi i coltivatori che, dalle Puglie alle Calabrie, hanno preferito o preferiscono abbattere i propri alberi in cambio di qualche finanziamento comunitario. Le vastissime esportazioni da Bari, Bisceglie, Gallipoli, Lecce, Molfetta, Manfredonia, Taranto, Mola, Gioia, Bisceglie, Monopoli, Ortona e Ancona, Reggio, Catanzaro, Procida, Castellammare o Napoli, raggiungevano Genova, Venezia, Trieste, Amburgo, Liverpool, Marsiglia, New Orleans, New York, Pietroburgo, Costantinopoli, Buenos Aires o Rio de Janeiro. Gli oli della Calabria, provenienti da ulivi più grandi e poco curati, erano meno pregiati e spesso venivano trasportati a Gallipoli e mescolati a quelli pugliesi rendendo necessari controlli e certificazioni di "origine controllata" nelle esportazioni. Gallipoli deteneva quasi un monopolio sull'esportazione dell'olio di qualità pregiata per le sue ottime cisterne tagliate nella roccia24.
A dimostrazione degli interessi economici che giravano intorno all'olio pugliese c'è un episodio abbastanza curioso: un fratello di Garibaldi, Felice, intorno al 1835 era diventato socio di un mercante barese di olio, Paolo Diano25.
 
Dalla liquirizia ai formaggi
 
Diverse le fabbriche che lavoravano la liquirizia soprattutto in Calabria (tra le più consistenti quella del barone Barracco) e in Puglia con diverse centinaia di addetti e buone esportazioni soprattutto in America; diverse anche quelle per la conservazione e la salagione del pesce, di insaccati, di miele (soprattutto Macchia in Terra d’Otranto); buona la produzione di zucchero (con lo zuccherificio della Società Industriale Partenopea a Sarno) e anche di un prodotto non meglio identificato ma di grande successo: “l’eleosaccaro, specie di zuccherinolo di molto gusto”. Per la liquirizia gli stabilimenti più produttivi erano quelli di Altilia, San Lorenzo di Vallo (39 addetti) e Isola (Calabria), di Silvi, presso Teramo (47 addetti).
Anche l'esportazione di liquirizia verso gli U.S.A. era aumentata dopo i trattati di commercio da 1741 casse a 2417 casse e grazie alle nuove tecnologie utilizzate in fabbriche come quelle di Carafa a Foggia, era cresciuta la potenza della compressione , “era migliorata la distillazione, la raffinazione e cottura dei così detti brodi: si è giunto ad ottenere dalla radice il venti per cento di liquirizia compatta, fragile, lucida, quale debbe essere per qualificarsi come ottima”.
Numerose le fabbriche dolciumi e di cioccolato: “da che gli scopritori del Messico nel 1520 conobbero che quei popoli usavano in alimento e in bevanda i semi del cacao leggermente abbrustoliti e polverizzati, ne introdussero l’uso nella Spagna e poi fu adottato dagli italiani e dai francesi: su le prime il cacao si condiva semplicemente con gli aromi, dopo vi si aggiunse lo zucchero e da quest’epoca propriamente prende origine il nostro cioccolatte”. Clouet a Napoli aveva inventato una nuova macchina col “vantaggio di dare al cioccolatte una raffinatezza d’assai maggiore di quello preparato nel consueto modo, evitando lo schifoso sudore dell’operaio ed ogni specie di maneggiamento […] con un cioccolatte pregevole per l’ottimo sapore e per l’eleganza delle forme”26.
Molti erano i formaggi tradizionalmente prodotti nel Regno di Napoli e intorno al 1850 alcune realtà artigianali si trasformarono in piccole realtà industriali ad esempio presso Caserta, nel Salento e presso L'Aquila.
Tra i più famosi ne ricordiamo alcuni ancora prodotti anche se non sufficientemente “protetti” dall’attuale legislazione comunitaria: la mozzarella, esistente certamente con il nome di “mozza” almeno fin dal Quattrocento e prodotta con il latte di bufala (oggi ormai senza nessuna esclusiva) nella zona “dei Mazzoni” tra Capua, Nola e Aversa, nel Salernitano e in Capitanata: al latte portato ad una certa temperatura si unisce il caglio che lo solidifica in una pasta filante che viene tagliata (“mozzata”) in forme rotonde o a volte intrecciata; il fiordilatte, prodotto con latte vaccino, di una pasta differente per colore e consistenza dalla precedente; la provola affumicata, mozzarella esposta al fumo di legna; i bocconcini di Cardinale, piccoli bocconcini di mozzarella non passati in salamoia e conservati nel latte o nella panna; il provolone, che comprende tutta una serie di formaggi diversi per stagionatura e sapore, da quelli più freschi e dolci a quelli più piccanti (tra quelli medi è famoso il provolone del monaco, tipico della penisola sorrentina tra Agerola e Vico e molto apprezzato anche presso la corte borbonica); il caciocavallo, più compatto del provolone (per questo anche da grattugiare) e di forma diversa, solitamente legato in coppia per la “testa” e sospeso con una corda “a cavallo” di un bastone; i burrini, pasta di provolone dolce ripiena di burro e tipica di alcune zone della Puglia; la ricotta di fuscella, leggera e conservata ancora umida in cestini di forma conica tagliata per farne colare il siero; la ricotta salata, prodotta con latte di pecora, conservata sotto sale e consumata soprattutto durante le festività pasquali27.
Le altre produzioni alimentari erano legate a tradizioni artigianali che non ebbero sviluppi di carattere industriale.
Tra gli esempi più famosi quello della produzione dei gelati o dei "sorbetti" dei venditori ambulanti forniti di "subbrettere" (cilindri di stagno per l'impasto e recipienti di legno per conservare la neve insieme alle bottiglie degli sciroppi) o di alcune gelaterie rinomate. Famosa nella capitale la sorbetteria di Vito Pinto a Piazza Carità, diventato "ricchissimo e barone a furia di ottimi gelati", uno dei motivi principali per cui Giacomo Leopardi si era legato a Napoli, secondo le parole di Antonio Ranieri. Quest’ultimo aveva cercato di risolvere "l'insolubile problema" dei gelati del grande poeta accordandosi con un gelataio di Torre del Greco senza riuscire ad accontentarlo, però, perché "a Leopardi si rizzavano i capelli al solo pensiero che non fossero proprio del Sì Vito [...] al quale "nelle frottole che ci scappavano di sera a veglia, aveva consacrato, in lode dei gelati, un terzetto, onde mi ricordo ancora il verso: Quella grand'arte onde barone è Vito". Leopardi, tra l’altro, era anche molto goloso di confetti, altra produzione tipica e diffusa soprattutto negli Abruzzi, dove erano molto abili nella lavorazione dello zucchero e anche nella creazione di vere composizioni artistiche28.
Stesso discorso si potrebbe fare per la produzione varia e diffusa dei salumi o per la pasticceria famosa e pregiata in tutta l'Italia del Sud ed in particolare della Campania e della Sicilia (dalla pastiera alla cassata, dalle sfogliate ai babà, dai cannoli ai calzoncelli, dai torroni alle paste di mandorla, dal cioccolato al marzapane).
Tenuto conto che i prodotti alimentari all'epoca si consumavano quasi sempre freschi, la grande tradizione dell'industria conserviera meridionale si affermò, con le nuove tecniche di conservazione, soprattutto agli inizi del Novecento, secolo durante il quale molte delle produzioni alimentari tipiche, invece, furono abbandonate o soppiantate da produzioni industriali qualitativamente inferiori ma in grado di reggere le attuali leggi del mercato internazionale.
 
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