DAUNIA DUE SICILIE
  Le industrie siderurgiche
 

Ha scritto Massimo Petrocchi: "L'industria siderurgica e metalmeccanica è l'industria del Regno delle Due Sicilie forse più interessante e starei per dire più suggestiva: si va da piccole fonderie private al colosso di Petrarsa, dalla piccola libertà di lavoro alla grandiosa industria di Stato; dalle minime fonderie di ferro e di piombo di Napoli (Sezione Mercato) allo stabilimento siderurgico di Atina, alla ferriera del D'Agiout in S. Sebastiano, al grande stabilimento siderurgico a S. Donato nel distretto di Sora, all'opificio meccanico di Oomens, alla fabbrica di Guppy sulla via Marina a Napoli".

 

Il Reale Opificio di Pietrarsa sorse sopra un'antica batteria a mare, tra Portici e S. Giovanni a Teduccio, per volere di Ferdinando II su consiglio di Carlo Filangieri, l'eroico combattente di Austerlitz e del Panaro. "Perché (diceva l'epigrafe incisa nella lapide a ricordo della sua fondazione) del braccio straniero - a fabbricare le macchine mosse dal vapore - il Regno delle Due Sicilie - più non abbisognasse - e con l'istruzione de' giovani napoletani - tornasse tutta nostra l'antica italiana discoverta - questa scuola di allievi macchinisti - Ferdinando II - nell'anno XI del suo regno - governando le armi dotte - Carlo Filangieri Principe di Satriano - fondò".

 

La sua importanza venne subito rilevata anche fuori del Regno: da Torino Alfonso La Marmora, ufficiale piemontese d'artiglieria, fu dal suo Governo delegato a visitarne gl'impianti, e ne riconobbe ben meritata la fama. Ma dopo l'unità nazionale quella fama non fu più tenuta in conto. Narrando la vita di suo padre Carlo, con accorato rimpianto Teresa Filangieri scriveva: "Ohimè! uno dei tanti Ministeri del nuovo Regno d'Italia ha creduto di dover vendere per misura di economia questo celebre opificio meccanico sorto con tanto intelletto d'amore!". Tuttavia Umberto I di Savoia, visitandone i residui impianti mentre era ancora principe ereditario, e vendendo per terra la statua di Ferdinando II abbattuto dalla rivoluzione, cavallerescamente la salutò.

 

Il R. Opificio di Pietrarsa era sorto dunque perché tornasse tutta nostra l'antica italiana discoverta, ed inizialmente più che d'industria siderurgica vera e propria aveva carattere didattico, come scuola di allievi a condurre le macchine marine, allora che il vapore si stava vittoriosamente affermando in tutti i mari, ed anche il re di Napoli, che non dimenticava come la marina a vapore mediterranea fosse nata nel suo golfo, aveva fatto acquistare in Inghilterra i tre piroscafi "Nettuno", "Ferdinando II" e "S. Wenefredo". Questi piroscafi vennero con a bordo macchinisti inglesi. I quali, nella predetta controversia sorta allora tra il Governo britannico e il napoletano a proposito d'una concessione nel commercio dei zolfi, minacciarono di abbandonare le navi; donde il consiglio del Filangieri subito fatto attuare dal re.

 

Tuttavia, oltre questa precisa affermazione d'italianità che torna tutta a merito di quell'avveduto governo, subito il complesso si sviluppò e si affermò nelle costruzioni metalmeccaniche, specializzandosi nella produzione di artiglierie per l'esercito e per la marina, di macchine a vapore, locomotive, vagoni e binari.

 

Vi si costruirono infatti macchine per la Marina da guerra, tra le quali una di 300 HP per la pirofregata "Ettore Fieramosca", molte locomotive  "Stephenson", "trombe" pel bacino di raddobbo colà inauguratosi il 25 agosto 1852, oltre a pezzi di ricambio ed a macchine utensili ritenute allora perfette, manufatti che in parte furono esposti, riscuotendo unanime lodi, nella mostra del 1853, nella quale figurarono modelli di gru fisse e portatili, di argani Barbottin, di fucine, di grossi martelli a vapore, di ruote per piroscafi e di affusti, uno spianatoio per levigare le facce dei metalli, un tornio, una rigatrice di canne da carabine, ed altri pezzi prodotti "secondo il magistero inglese coi fornelli alla  Puddler".

 

L'attrezzatura del grandioso opificio è così descritta in una pubblicazione del Chiurello edita nel primo centenario della sua fondazione. "Nella officina delle locomotive: una macchina motrice a vapore da 20 HP a bilanciere Watt con distribuzione variabile e condensatore per azionare a traverso due rami di trasmissione, le macchine utensili del reparto; 24 torni; 2 bareni; 5 piallatrici; 3 trapani verticali, 2 macchine per bulloni e viti; 88 morse da banchi per limatori; 2 grandi gru a braccio girevole. Nell'officina delle artiglierie: una macchina a vapore di 8 HP; 14 torni paralleli; 4 limatrici ed una macchina per rigare i cannoni. Nell'officina costruzione caldaie: 2 laminatoi a piegare e un forno per riscaldare le lamiere; un trapano; una cesoia pel taglio di grosse lamiere; una cesoia con punzonatrici; una pressa idraulica; 2 gru. E nell'officina proiettili: un forno a riverbero; 4 piccoli forni Wilkinson e 3 grossi magli a vapore. V'erano inoltre: una officina per la costruzione dei modelli; un reparto fucinatori con 30 fuochi; una fonderia di ferro con 3 grandi fornaci Wilkinson; 3 piccole fornaci del ferro e una fonderia del bronzo.

 

La grande ferriera era attrezzata con macchine da 100 HP ciascuna, 6 caldaie a vapore, 12 forni per l'affinatura del ferro, 4 forni a riscaldare e 5 treni laminatoi per ferro profilato.

 

Pietrarsa era la fabbrica italiana che impiegava un maggior numero di operai: quando l'Ansaldo a Sampierdarena, dopo la crisi del 1857, aveva solo 480 operai, a Pietrarsa vi lavoravano 820 "artefici paesani" e 230 operai militari.

 

Nel passaggio al Regno d'Italia Pietrarsa produceva ruote di locomotive, rotaie, tubi e camere di pompe, tubi di lamiera per granate, granate, bombe, cannoni e cannoncini da montagna, caldaie di macchine ad elica di 450 HP, un vascello ad elica.

 

Oltre a questi lavori pesanti vi si costruivano anche lavori più fini, che richiedevano "magistero più minuto e gentile", come ad esempio "l'apparecchio per ricoprir di seta i fili metallici de' telegrafi elettrici e le belle ed intricate macchine che questi richieggono".

 

È scritto in un documento del Ministero della Guerra (Fascio 2226, anno 1854, dell'Archivio Storico di Napoli) pubblicato dal Petrocchi: "S. M. il Re nel visitare il Reale Opificio di Pietrarsa, essendosi degnato di manifestare nel modo più solenne la clemente sua approvazione per tutti gli svariati grandi lavori eseguiti dal Real Corpo del Genio, per lo stabilimento della nuova Officina della Fonderia, comandava che da ora innanzi questa gigantesca parte dello stabilimento portasse il nome di Officina Ischitella". Il maresciallo Principe d'Ischitella era allora Ministro della Guerra e della Marina.

 

Oltre all'Opificio di Pietrarsa, il "colosso", come si disse, della industria non solamente napoletana ma italiana, altri imponenti complessi industriali di Stato esistevano nel Regno.

 

Di nobilissime tradizioni nelle costruzioni navali in legno erano da tempo il Cantiere di Castellammare e l'Arsenale di Napoli; ma essi già nel periodo borbonico avevano iniziata anche la trasformazione per impostare bastimenti in ferro. Infatti, tra il 1845 e la fine del Regno, a Castellammare furono costruite cannoniere, fregate, pirovascelli per 43 mila tonnellate. E l'Arsenale, che nei primi anni dell'Unità d'Italia impiegava 1600 operai era già stato munito di un bacino di carenaggio lungo 75 metri, il quale fu il primo costruito in muratura in Italia.

 

La Real Fonderia, in cui lavoravano da 100 a più di 150 operai fonditori, limatori, staffatori, forgiatori, fuochisti, produceva, tra l'altro, manufatti in bronzo e cuscinetti per ferrovie. Locomotive, vagoni, carrimatti ed incrociamenti, ed altri pezzi in ferro fuso erano costruiti nell'Opificio della Strada Ferrata; armi bianche e da fuoco nella Real Manifattura di Torre Annunziata; e cilindri scanalati e cannoni nella Real Fonderia di Castelnuovo, che poteva anche produrre grandi fornaci di raffinamento a doppio effetto, nonchè fornaci "per fornire il ferro acconcio all'azione del martello a vapore".

 

Una Reale Ferriera esisteva nella Mongiana, un villaggio presso Monteleone Calabro (da cui prendeva il nome); ferriera che aveva 2 alti forni per la produzione della ghisa, 6 raffinerie, 2 forni Wilkinson ed altre officine minori. il prodotto, in gran parte destinato all'Esercito ed alla Marina, era stimato di gran pregio. "La ghisa di prima fusione - scriveva l'Istituto d'incoraggiamento nella citata Disamina - è di tal pregio da non temere il confronto con quella di Bofort, quanto il ferro malleabile tirato a trafila, di diverse dimensioni, tondo e rettangolare, e di cui se n'è veduta ed accuratamente osservata la spezzatura a freddo; il quale è di ottima qualità, e medesimamente dovete dire delle bandelle e lamine, e delle lamine stagnate a fogli. Inoltre si voglion dire bellissimi i saggi dell'acciaio di cementazione, che nulla lasciano a desiderare".

 

Oltre al personale statale vi lavoravano 280 carbonieri, 100 mulattieri e 100 artefici e manovali.

 

La Ferriera gestiva anche le vicine miniere di ferro e grafite, per la vicinanza delle quali era sorta in quella località.

 

Fabbricava, oltre alle armi, "mitraglie" di ferro fuso, lastre per canne, bombe e palle, anche ferro "maglio", ghisa in lingotti, pezzi per ferrovia.

 

In Calabria, a Catanzaro, vi era pure una Ferriera privata appartenente al predetto Principe Filangieri, la quale andò distrutta da un alluvione nel 1855.

 

Vi erano nel Regno, oltre alle grandiose fabbriche dello Stato ed alla predetta del Filangieri, anche altri importanti opifici siderurgici privati.

 

Nel 1852 si era trasferito a Napoli da Bristol l'industriale Thomas Richard Guppy (quello stesso che in patria aveva costruito il famoso  "Great Western", uno dei primi grandi transatlantici) e subito vi aveva impiantato una fabbrica di chiodi e punte di Parigi, poi ampliata in una ferriera, con molte officine, protetta dal Governo, per conto del quale fabbricava l'ottone per le caldaie a vapore della Marina.

 

Essa produceva, tra l'altro, verghe all'uso inglese, e fu la prima ad introdurre nel Mezzogiorno le macchine agricole.

 

Al Ponte della Maddalena, di fronte ai Granili, vi era un'altra fonderia privata di notevole importanza, quella di Macry Henry, che produceva ghisa di Scozia di prima qualità e manufatti meccanici; e a Capodimonte un Opificio di Zino Henry & C., di cui l'Istituto d'incoraggiamento lodava una macchina a vapore, una tromba per attingere acqua, una macchina per pulire la lana dai "catelli", ed una macchina trebbiatrice Pitts costruita sotto la personale direzione dello stesso Henry.

 

In un'Esposizione tenutasi a Napoli nel 1835 la fonderia Zino-Henry fu premiata con medaglia .d'oro di prima classe. "Questa manifattura - scrisse allora Raffaele Liberatore - rappresenta un grande indizio di progresso e le sue produzioni il più nobile ornamento di questa solenne Esposizione". E il Fazzini, nel 1836: "Si adempie ad un dovere di gratitudine cittadina onorando di debite lodi i signori Lorenzo Zino e Francesco Henry, che, ad una grandiosa fonderia di ferro avendo, con saggio divisamento, aggiunta una completa officina di lavori meccanici, sono venuti in tal modo a sottrarci dalla dura necessità di dover ricorrere all'Estero per tutte le macchine necessarie al cammino delle nostre industrie e manifatture".

 

Di quella fonderia trovo un'ampia storia descrittiva pubblicata da Giuseppe Aurelio Lauria nel "Poliorama pittoresco" del luglio 1839, dalla quale traggo qualche interessante dettaglio. Premesso come, per iniziativa di Lorenzo Zino (il quale aveva a Camello di Sora sul Fibreno un'importante filanda "in cui quasi quotidianamente sentivasi il bisogno dei restauri, delle riparazioni e delle mutazioni nelle macchine di cui facevasi uso), e sotto la direzione tecnica del meccanico francese Francesco Henry, ne sia sorto il primo impianto nelle grotte. di Capodimonte, il Lauria precisa: "Sì grande era la necessità in cui oggi trovavansi le fabbriche degli aiuti d'uno stabilimento come quello dei signori Zino e Henry che, non appena pochi mesi erano trascorsi e già il tempo e lo spazio mancavano per appagar le brame dei richiedenti, poiché non si dimandavano soltanto restauri ed accomodi, ma  imitazione benanche di macchine testè arrivate da Francia. Nè si sconfidavano a quelle tante richieste gl'imprenditori dell'opera e ben rispondendo alla fiducia che in essi veniva collocata, s'ingegnarono di far tutti contenti, e di meritar sempre più il gradimento e l'amore de' loro committenti", Di qui la costruzione del nuovo complesso, grandioso per l'epoca, al Ponte della Maddalena.

 

"Son pochi anni da che la Fonderia Napolitana ha cominciato a lavorare - scriveva il Lauria nell'aprile del 1839 - e già è arrivata a tal punto di perfèzionamento, che supplisce benissimo e soddisfa a tutti i bisogni delle industrie, non escluso il soccorso delle macchine a vapore". Enumerati quindi i moltissimi lavori "di sommo momento" in essa eseguiti, egli aggiunge: "Sorge appena in Napoli il desiderio ed il divisamento d'una Strada di ferro; e subito gl'imprenditori, abbenchè francesi, rivolgono il pensiero alla nostra Fonderia e tutti i lavori preliminari per quel prodigioso artificio furono eseguiti al Ponte della Maddalena, e tuttora si pratica pel fornimento di quanto in ferro necessita pe lo progredimento dell'impresa. Sorge appena in Napoli il desiderio ed il divisamento della Illuminazione a gas idrogeno, e subito gli imprenditori, abbenchè francesi. rivolgono le loro speranze e danno le loro commessioni alla nostra Fonderia, la quale celeremente, ed a buoni patti, fornisce tubi, fornelli, torte, macchine e quant'altro fu e sarà necessario per quel vaghissimo spettacolo che le notturne tenebre portentosamente rompendo e  diradando, le vaghezze d'ogni altro spettacolo circostante ci rivela. In 8 uffizi diversi si divide l'intero stabilimento, i quali tra loro corrispondendosi e seguendosi, formano la più bella armonia di lavori che possa idearsi", e cioè le officine disegni, modellatori, fonditori, forgiatori ad aria calda, laminatori, tornitori, montatori, e costruttori di caldaie a vapore.

 

"Meglio di 200 lavoratori trovano pane quotidiano nella Fonderia, e quel che vaI meglio del pane, trovano la istruzione artigiana la quale dà i mezzi sicuri per aver sempre quel pane: disegnatori, limatori, lornieri, modellatori in legno e in metallo, cisellatori, fonditori. costruttori di staffe, la più gran parte di costoro sono usciti dalla classe più povera e più ignorante del popolo. Cosicchè oggi - concludeva il Lauria - dalla Fonderia e dal Laboratorio meccanico può eseguirsi e si esegue ogni genere di lavoro, sia per le macchine dell' industria manufattrice, sia per gli strumenti agrari, sia per gli utensili di ogni genere d'arte, e per tutte le necessità della vita che dimandano l'uso del ferro".

 

Con queste produzioni siderurgiche di maggior rilievo vanno poi anche .ricordati lavori più minuti, principalmente d'acciaio.

 

A prescindere dalle opere in acciaio brillantato della Real Fabbrica di Torre Annunziata e dalle armi di lusso in essa fabbricate e ritenute più belle delle famose d'Inghilterra e di Francia, è da ricordare di quella fabbrica il tentativo di minuterie d'acciaio riuscito ottimamente, ma che venne sospeso non volendosi distrarre la fabbrica stessa dalla sua normale produzione di armi.

 

Ottimi esemplari di coltellerie e di ferri chirurgici erano prodotti non solo a Napoli ma anche in Abruzzo a Teramo, e nel Molise a Campobasso, a Frosolone, ad Agnone ed a Lucito; nelle quali manifatture si distinsero Giustino e Luigi d'Olimpio Fazioli, Nicola Boffolo, Salvatore Raimo, Carlo Amò, Ferdinando Calì.

 

Quando Domenico Bolasco riuscì, per primo, a fabbricare a Napoli l'acciaio di cementazione indispensabile per fabbricare le lime, anche lime e raspe, fino allora importate dalla Stiria, dall'Inghilterra e dalla Svizzera, vi vennero fabbricate d'ogni tipo, a forma piana, rotonde, triangolari, a quadrello, a spina, e da  orologiai; anzi la fabbricazione di quell'acciaio speciale venne a tal punto perfezionata da essere giudicata superiore all'inglese, francese, sveva e della Carinzia.

 

A Napoli dal Boulanger e a Chieti dal Ruotolo venivano fabbricati serrature e letti di ferro; da Francesco Solazzo, direttore della Società Industriale Partenopea, caratteri tipografici molto apprezzati, di cui se ne producevano 200 mila libbre l'anno; da Filippo De Palma e Saverio Gargiulo motori magnetici e barometri; da Leonida Radaelli bilance e stadere; da Nicola Laurenzani  ruote idrauliche; da Filippo Eugenio De Lamorte sedie e tavolini di cannelli di ferro; motori idraulici, elettrodinamici e magnetici  da Costantino Torassa, Giovanni De Normann e Leopoldo Del Puente; telai meccanici dai Fratelli Comens; e inoltre pettini a denti d'acciaio usati nelle tessiture di seta, di lana e di cotone, trivelle e frantoi, macchine agricole, trombe d'acqua per irrigazione.

 

Piccole fabbriche, o meglio fucine artigiane di strumenti agricoli v'erano anche a Pietramala di Paola, a Saracena di Castrovillari, a Cavallo di Potenza, a Lauria di Lagonegro, ad Atri di  Teramo.

 

La lavorazione del ferro era del resto, nel Mezzogiorno, di antichissima origine. Diodoro Siculo, premesso che il ferro veniva esportato in pani a Pozzuoli, "i carichi - egli aggiungeva - sono comperati da alcuni che tengono molti fabbri che ne traggono diversi oggetti, in parte lo forgiano in forma di uccelli, e in parte ne fanno fibule, ganci ed altri utensili".

 

Alfonso d'Aragona aveva fatto costruire nel 1444 sul Garigliano un ponte con grosse spranghe in ferro, ponte che dai Borboni fu sostituito con un audace traliccio metallico sospeso, il primo del genere in Italia, collaudato dallo stesso re Ferdinando che sostò al centro mentre vi passavano al trotto 2 squadre di lancieri e 16 traini di artiglieria.

 

L'opera fu compiuta a fine aprile 1832 dopo poco più di 4 anni di lavoro dall'inizio; costò 75 mila ducati; impiegandovi 68.857 chilogrammi di ferro.

 

Nel luglio dello stesso anno venne iniziato sul Calore la costruzione di un analogo ponte sospeso in ferro, il quale fu completato nel marzo del 1835, con una spesa di 59 mila ducati; il ferro fu prelevato e lavorato dalle ferriere calabresi del principe Carlo Filangieri di Satriano; i pezzi di getto furono fusi nella Real Fonderia di Mongiana.

 

Inaugurato il 5 aprile di quell'anno anch'esso dal Re, per sua volontà fu chiamato Ponte Cristino in memoria della sua prima moglie, la Santa Maria Cristina di Savoia; l'altro, sul Garigliano, fu chiamato, in onore del Re, Ponte Ferdinandèo.

 
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