Nel 1130, notte di Natale, con una fastosa cerimonia Re Ruggero II sancì a Palermo la nascita del Regno di Sicilia. Da quella notte, tutto il Sud della penisola italiana, dagli Abruzzi alla Sicilia, fu unificato nel primo vero Stato come nazione indipendente con capitale Palermo.
Quel 25 dicembre è una data simbolica: Ruggero II si presentava come il redentore di tutte le popolazioni del Sud della penisola e, nello stesso tempo, come il fondatore di un regno cristiano. Il Regno, a quella data, aveva circa tre milioni d'abitanti, ed era da sempre considerato il territorio più bello dell'Europa per l'antica cultura, per il clima, per gli stupendi paesaggi e per lo stesso modo di vivere della gente, che già per questo poteva ben dirsi una nazione. Nel resto d'Italia vi erano altri cinque milioni d'abitanti, divisi in tanti piccoli agglomerati feudali, qualcuno non più grande della sua cerchia di mure, aventi origini, tradizioni e idiomi diversi.
I Normanni restarono al potere fino al 1194, poi arrivarono gli Svevi, il cui più illustre rappresentante fu Federico II. Seguirono, nel 1266, gli Angioini che trasferirono la capitale del Regno di Sicilia a Napoli. A seguito dei 'vespri siciliani' del 1282 la Sicilia fu occupata dagli Aragonesi e divenne Regno di Trinacria, mentre la parte continentale divenne Regno di Napoli. Nel 1443 gli Angioini, che non avevano mai formalmente rinunciato al titolo di re della Sicilia, dovettero cedere agli Aragonesi anche la parte continentale del Regno che fu riunito da Alfonso il Magnanimo (Regnum utriusque Siciliae, Regno delle Due Sicilie). Nel 1503 il Regno fece parte della Spagna, che costituì due vicereami autonomi: quello di Napoli e quello di Sicilia. Così restò nel breve periodo austriaco, che va dal 1707 al 1734, anno in cui tutta la Nazione duosiciliana diventò nuovamente indipendente con i Borbone.
Il primo sovrano fu Carlo, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, già duca di Parma. Egli prese possesso del regno, succedendo agli Austriaci, a seguito delle vicende connesse alla guerra di successione polacca: tale avvicendamento gli fu riconosciuto poi dal trattato di Vienna del 1738.
Il ripristino dell'antico nome delle Due Sicilie avvenne nel 1816, a seguito del Congresso di Vienna dell'anno precedente, congresso che mirò a riordinare politicamente l'Europa dopo gli sconvolgimenti delle guerre napoleoniche. Le potenze che avevano sconfitto Napoleone, Inghilterra, Austria, Russia e Prussia, come fanno sempre i vincitori, "sistemarono" l'Europa seguendo logiche che avrebbero dovuto rafforzare sempre di più il loro potere anche a costo di dividere artificialmente le nazioni. La Francia fu ricacciata negli antichi confini e fu privata di suoi territori a favore della Prussia, decisione che fu poi all'origine di continue guerre. Gli Stati tedeschi furono sconvolti da ingrandimenti e dimezzamenti territoriali senza che fosse tenuto conto della loro aspirazione a costituire uno Stato unitario. La Polonia fu divisa fra tre Stati (Austria, Russia e Prussia). L'Austria s'ingrandì a spese di una varietà di popoli del tutto diversi tra loro. Nella penisola italiana, la repubblica di Genova e l'Alto Novarese furono incorporate dal regno sardo-piemontese; il Veneto e la Lombardia furono assegnate all'Austria; il Regno delle Due Sicilie, pur essendo una delle potenze vincitrici, fu spogliato di Malta e dello Stato dei Presidii. Le decisioni del Congresso di Vienna, insomma, pur riuscendo a mantenere poi per numerosi anni un equilibrio tra le varie potenze, non considerarono in alcun modo le aspirazioni degli altri Stati, ponendo così le premesse per i successivi conflitti.
Il Congresso di Vienna era avvenuto a seguito del Patto di Chaumont, stipulato nel 1814, per effetto del quale era stata costituita la Quadruplice Alleanza tra Inghilterra, Prussia, Austria e Prussia: l'alleanza fu sottoscritta con l'impegno reciproco di liberare l'Europa dal dominio napoleonico e di ricondurre la Francia nei confini del 1792. Dopo il Congresso, si costituì, il 26 settembre 1816, la Santa Alleanza tra Russia, Prussia e Austria, potenze che si accordarono per darsi reciproca assistenza per la conservazione della situazione territoriale e delle dinastie istituzionali europee. Soprattutto l'Austria aveva interesse a questo accordo perché costituita da un mosaico di popoli che aspiravano all'indipendenza. A quest'ultimo patto non partecipò l'Inghilterra, che era interessata non tanto alla stabilità del continente, ma solo a mantenere controbilanciate le forze delle potenze europee e di conservare il dominio sui mari, dominio che le permetteva di rendersi arbitra della politica degli altri Stati. La Francia fino al 1850 fu ingabbiata da questa alleanza che le impedì ogni azione tendente a modificare le decisioni fissate al Congresso di Vienna.
La politica europea, in seguito, dovette abbandonare tali principi conservatori, ormai non più rispondenti alla realtà, e si apprestò a fronteggiare i pericoli ben più gravi causati dai moti liberali, i cui principali ispiratori, Giuseppe Mazzini e Carlo Marx, sostenevano soprattutto il principio dell'uguaglianza dei popoli più che la loro indipendenza. A tali principi erano particolarmente interessati gli ebrei, i quali, da secoli, lottavano per la loro emancipazione: fu per questo che fecero parte delle società segrete nelle quali si attivarono sostenendole anche economicamente.
Questa nuova ideologia spaventò soprattutto la piccola e media borghesia dell'Europa continentale che appoggiò la conseguente reazione ed ebbe come risultato la formazione degli Stati costituzionali, i quali divennero strumento per opporsi agli sconvolgimenti rivoluzionari, ma anche all'assolutismo monarchico che impediva una politica liberista.
I moti del 1848, infatti, avevano scompaginato gli accordi del Congresso di Vienna con il prevalere delle idee nazionaliste che avevano portato allo scontro dei tedeschi contro polacchi, danesi e slavi; ungheresi contro slovacchi; croati contro ungheresi e italiani. Gli Asburgo soffocarono le rivolte in Italia, in Ungheria, in Germania e in Boemia, con la sola forza dell'esercito: fu il Metternich, artefice di questa politica, a pensare che bastava imporre il rispetto dell'ordine costituito perché si potessero tenere insieme popoli così diversi in un unico organismo politico.
In un primo tempo l'Inghilterra, volendo bilanciare le contrapposizioni degli Stati europei, aveva appoggiato l'Austria perché la considerava pur sempre un baluardo contro l'espansionismo francese. Dopo il 1846, però, guidata da Palmerston, cominciò anche ad interessarsi degli avvenimenti che accadevano nella penisola italiana ed iniziò a condannare apertamente gli interventi austriaci: ciò avveniva perché l'Austria aveva stretto rapporti con Francia e Russia, due potenze verso le quali gli Inglesi nutrivano forte ostilità. Per questo nel 1847 il governo inglese inviò in Italia lord Minto con il compito ufficiale di sostenere gli Stati riformatori e la causa della libertà in senso moderato, anche se la vera missione consisteva nell'evitare una crisi dell'equilibrio europeo, e nell'impedire che tutta la penisola cadesse sotto l'influenza francese a seguito di un eventuale disimpegno austriaco. Altro compito di Lord Minto nella penisola era quello di favorire la costituzione di una lega doganale tra i vari Stati italiani: l'Inghilterra, infatti, sovrastava tutti gli altri Stati europei nell'industria e nel commercio e, per questo, aveva tutto l'interesse ad imporre in Europa una politica di libero scambio, che, permettendo il libero ingresso di prodotti a basso costo, avrebbe stroncato sul nascere le economie emergenti che non avrebbero avuto la forza di competere con essa.
Inaspettatamente, però, nel 1848 l'Inghilterra prese le parti dell'Austria nel conflitto contro i piemontesi. La ragione di questa svolta è da ricercarsi nel movimento rivoluzionario che era scoppiato in Francia con la cacciata di Luigi Filippo e la formazione di una repubblica con a capo il nipote di Napoleone, Luigi. Si temeva, infatti, che tale rivoluzione potesse interessare tutta l'Europa com'era successo nel 1789. Palmerston cercò perfino di impedire l'intervento duosiciliano, prospettando al Re Ferdinando II una sicura vittoria dell'Austria e i gravi danni che gli sarebbero derivati da un eventuale ingrandimento del Piemonte. Il governo inglese temeva, com'era in effetti nelle intese della Francia, che questa avrebbe approfittato degli avvenimenti insurrezionali italiani per aumentare la sua influenza in Italia a scapito di quella austriaca. Lo stesso lord Minto fu incaricato di diffidare il governo piemontese dal provocare un intervento francese e, nel contempo, fu incaricato di evitare che la Sicilia, a seguito dell'insurrezione che vi era scoppiata, potesse cadere sotto l'influenza francese. L'Inghilterra propose che fosse posto sul trono siciliano il figlio del savoiardo Carlo Alberto in contrapposizione alla Francia che proponeva un principe francese: la vittoria dell'Austria sul Piemonte pose fine a questi contrasti che non riguardavano minimamente l'indipendenza della Sicilia, ma solo ed esclusivamente gli interessi mediterranei delle due potenze.
Napoleone III, d'altra parte, avendo compreso che il principio delle nazionalità avrebbe alla lunga prevalso, mirò a cambiare l'Europa nata nel 1815 e indirizzava la sua politica contro l'impero austriaco per imporre il proprio predominio sugli altri Stati europei. Tuttavia la sua politica era impossibile da realizzare perché contraddittoria: da una parte, infatti voleva rifare l'Europa, dall'altra voleva mantenere il vecchio equilibrio europeo.
Nel Regno delle Due Sicilie, primo fra gli altri Stati europei, Ferdinando II, ma con obiettivi diversi, concesse il 29 gennaio del 1848 la Costituzione, che in rapida successione fu concessa anche dagli altri Stati con l'interessata pressione del governo inglese. I movimenti rivoluzionari che si erano manifestati nelle Due Sicilie, tuttavia, non erano spontanee rivolte popolari: esse erano provocate da una parte della borghesia, quella mercantile, d'idee liberali, nonché da quel ceto ancora legato a consuetudinari privilegi feudali, che si opponeva alla amministrazione duosiciliana tradizionalmente molto disponibile nei confronti delle classi meno abbienti.
La concessione della Costituzione, per il sovrano duosiciliano, aveva motivazioni diverse da quelle liberali, perché ben diverse erano le condizioni del popolo. Non vi era nelle Due Sicilie, come invece vi era nell'Italia settentrionale, il dominio di un governo straniero, né l'assolutismo era oppressivo come in Piemonte, ma illuminato e popolare, tanto che in brevissimo tempo aveva portato il Regno ad un'economia di buon livello. Questo successo era avvenuto in modo naturale, senza l'aggressività della rivoluzione industriale inglese che aveva causato milioni di derelitti in Inghilterra e in Francia, ma anzi con un crescente e diffuso benessere, relativamente ai tempi, che, senza l'interruzione dell'invasione piemontese, avrebbe portato correttamente il Regno ai più alti vertici economici e sociali.
Nel regno sardo-piemontese la borghesia, priva di capitali e di mercati più vasti, amministrata in modo ottuso, desiderando di voler "risorgere" dalle sue misere condizioni, ad imitazione delle fortune coloniali inglesi e francesi, concepì la conquista degli altri, più ricchi, territori della penisola italiana. Il Regno savoiardo, tuttavia, non aveva le capacità per compiere da solo queste conquiste. La monarchia sabauda, tra l'altro, si era dimostrata la più retriva e reazionaria della penisola soffocando nel sangue il più piccolo tentativo di rivolta. Essa fu spinta, in ogni modo, dalla sua classe politica ad espandersi territorialmente verso la Lombardia e il Veneto, ma gli Austriaci, nonostante disordini interni, sconfissero facilmente nel luglio del 1849 i piemontesi a Custoza.
La Russia, intanto, che da qualche tempo cercava di espandere il proprio territorio in direzione del Mediterraneo, aveva progettato di annettersi la Valacchia e la Moldavia allo scopo di avere un più facile accesso nel Mar Nero. Il suo scontro vittorioso contro la Turchia nel 1853 determinò però un altro conflitto, quello cosiddetto di Crimea, che i francesi e gli inglesi, uniti dagli stessi interessi, organizzarono per contrastare l'espansionismo russo. Al conflitto volle partecipare il governo piemontese retto da Cavour, che in tal modo contava di liberare il Piemonte dall'isolamento internazionale e di stringere forti alleanze per non avere ostacoli ai suoi disegni espansionistici.
Dopo la guerra di Crimea, al successivo congresso di pace di Parigi del 1856, Francia e Inghilterra, anche se con altre intenzioni, affermarono tra l'altro che il governo pontificio, quello austriaco e quello duosiciliano opprimevano le popolazioni a loro sottomesse. A seguito di questi pronunciamenti Cavour si recò a Londra sperando di ottenere un aiuto armato per una guerra contro l'Austria, ma si rese conto che le dichiarazioni inglesi avevano solo il fine di ottenere un favorevole voto piemontese al Congresso per la questione della Valacchia e della Moldavia. L'Inghilterra, infatti, mai avrebbe permesso un indebolimento dell'Austria che continuava a considerare in funzione antifrancese, anche se si era dimostrata favorevole alla creazione di un più forte Stato nel nord della penisola italiana.
Cavour allora si rivolse alla Francia e si giunse così al Convegno di Plombières, dove furono poste le basi delle successive conquiste piemontesi. Nel Convegno fu stabilito che, a seguito dell'intervento francese, si sarebbe creato un regno dell'Alta Italia sotto i Savoia; Luciano Murat sarebbe stato posto a Napoli e Gerolamo Bonaparte a Firenze, costituendo con questo nuovo assetto della penisola una confederazione italiana sotto la presidenza del Papa, che avrebbe però avuto un ridimensionamento del proprio territorio. Il Piemonte, non vendo risorse economiche per sostenere una guerra, si obbligò di vendere alla Francia i suoi possedimenti di Nizza e Savoia, ed era in procinto di vendere anche la Sardegna se non fosse stato fermato dall'Inghilterra che temeva la formazione di una supremazia della Francia nel bacino mediterraneo.
L'Inghilterra, infatti, appena aveva saputo di questo piano, diffidò immediatamente Napoleone III e Cavour, chiedendo anche alla Prussia di intervenire militarmente per evitare una guerra contro l'Austria. Il conflitto, tuttavia, scoppiò ugualmente a causa dell'ingenuità del governo austriaco che inviò un ultimatum al Piemonte, che per questo fu considerato uno Stato aggredito, e che, com'era nei patti, fece scattare l'intervento francese. Durante il conflitto Cavour, noncurante degli accordi di Plombières, attivò numerose rivolte in Toscana, nei ducati di Parma e di Modena, e nelle Legazioni delle Romagne per poterle annettere al Piemonte: fu per questo che Napoleone III si affrettò a firmare un armistizio con gli Austriaci a Villafranca, ma anche per la pressante minaccia di un intervento prussiano alle sue frontiere.
In seguito l'Inghilterra ritenne più confacente ai suoi interessi una modifica radicale dell'assetto politico della penisola italiana. Determinante fu innanzitutto la progettata apertura del canale di Suez, fatto che rendeva indispensabile avere il dominio del Mediterraneo, e poi i contemporanei accordi commerciali tra le Due Sicilie e l'impero russo, che aveva iniziato a far navigare la sua flotta nel Mediterraneo, avendo come base d'appoggio proprio i porti delle Due Sicilie. L'Inghilterra, tra l'altro, aveva considerato che la creazione di un unico Stato nella penisola italiana potesse fare da contrappeso alla Francia nel Mediterraneo e avrebbe eliminato o ridotto fortemente l'influenza cattolica in Europa.
Non vanno sottovalutati anche altre vicende che determinarono un cambiamento della politica inglese nei confronti delle Due Sicilie: innanzitutto l'abolizione di fatto della Costituzione concessa nel 1848 e la mancata partecipazione delle Due Sicilie alla Lega Doganale. Tale situazione contrastava fortemente gli interessi commerciali inglesi che traevano buoni profitti dai traffici con gli Stati che avevano già una politica di libero scambio.
L'Austria non poté intervenire a causa delle sue lotte interne, mentre la Russia era troppo distante dal teatro degli avvenimenti. La Francia cercò di impedire le intenzioni annessionistiche del Piemonte, ma la successiva formazione di una intesa tra Austria, Prussia e Russia non le consentì di opporsi all'Inghilterra per non correre il rischio di rimanere politicamente isolata. Napoleone III si limitò a mantenere le sue truppe nello Stato pontificio con lo scopo dichiarato di proteggere il Papa, ma in realtà per tenere il nuovo Stato italiano sotto tutela francese.
La spinta verso l'annessione fu, senza dubbio, però, l'alleanza sotterranea tra la borghesia piemontese e di una parte di quella delle Due Sicilie, quella soprattutto liberale. Una gran parte della borghesia duosiciliana, infatti, restò legittimista e fornì non pochi aiuti alla resistenza subito formatasi dopo l'invasione delle truppe piemontesi. Gli obiettivi della borghesia piemontese erano quelli di impossessarsi di più ricchi territori e di sfruttare quest'ampliamento con l'opportunità di più vasti traffici e appalti, mentre gli scopi di quella duosiciliana, che era soprattutto una borghesia legata alla terra, erano quelli di sottrarsi alla tradizionale amministrazione dei Borbone e di impossessarsi delle vaste terre demaniali che erano concesse gratuitamente in uso civico ai contadini.
Conclusi tali accordi, che minarono dall'interno lo stesso governo delle Due Sicilie, l'azione di Garibaldi, enormemente aiutato dagli inglesi (sbarcarono anche truppe indiane in Sicilia), fu una facile passeggiata fino a Napoli, sebbene costellata da numerosi episodi di violenza, di stragi e di ruberie. Colpevole fu, infine, anche la dirigenza militare duosiciliana, quella che non tradì, che non aveva capito che nella guerra portata dai piemontesi non esisteva più la moralità, la cavalleria ed il rispetto del diritto di un tempo. L'invasione piemontese fu attuata, infatti, con una guerra totale che non rispettò principio alcuno.
La principale causa del crollo delle Due Sicilie va, senza dubbio, inquadrata nel marciume generato dalla corruzione massonica. Esso era dappertutto: nelle articolazioni statali, nell'esercito, nella magistratura, nell'alto clero (fatta salva gran parte dell'episcopato), nella corte del Re, vera tana di serpenti. Infatti, come ha esattamente analizzato Eduardo Spagnuolo: "addebitare ai piemontesi le colpe del nostro disastro è vero solo in parte e contrasta anche con i documenti dell'epoca. La responsabilità della perdita della nostra indipendenza e della nostra rovina è per intero della classe dirigente duosiciliana, che si fece corrompere in ogni senso. Non a caso le bande guerrigliere più motivate, come quella del generale Crocco e del sergente Romano, si muovevano per colpire, innanzitutto, i collaborazionisti e gli ascari delle guardie nazionali".
Dopo il 1860 non ci fu soltanto un popolo in lotta contro un esercito aggressore, come nel 1799, ma una guerra civile tra gli strati popolari e la minoranza collaborazionista, tutta proveniente dalle classi più abbienti della società meridionale. I piemontesi, come ha giustamente indicato ancora Eduardo Spagnuolo: "vinsero perché si erano precedentemente assicurati, attraverso l'azione sovversiva della massoneria, l'adesione dei "galantuomini" del Sud, i veri criminali briganti. Se non avessero avuto questo consenso fondamentale, mai e poi mai si sarebbero azzardati ad attaccarci. Se un popolo, infatti, insieme alla sua classe dirigente (o almeno con una parte consistente di essa) ha veramente voglia di resistere, non c'è repressione che tenga, anche se la vittoria piemontese sul campo era stata ottenuta soprattutto grazie ad una schiacciante superiorità di mezzi materiali e ad un'ottima organizzazione bellica frutto dell'esperienza delle varie guerre precedenti. All'eliminazione della "classe dirigente borbonica" contribuì, purtroppo, lo stesso Francesco II, che, nel concedere la costituzione, corrispose esattamente al piano diabolico dei liberali. Con la promulgazione della costituzione (che Ferdinando II aveva espressamente raccomandato al figlio di non concedere) furono eliminati legalmente i funzionari fedeli e soprattutto fu paralizzato il popolo attraverso il disarmo legale della Guardia Urbana, milizia popolare in stragrande maggioranza fedele al Re. Nonostante lo sfaldamento del nostro esercito, la partita poteva ancora essere vinta, o quanto meno si poteva veramente colpire con efficacia l'aggressore piemontese, ma la concessione reale della costituzione (nell'illusione di avere favorevoli i liberali, decisi, invece, a svendere la propria terra allo straniero) chiuse i giochi ancora prima di iniziare la partita. Attraverso di essa, infatti, quella parte della borghesia traditrice, proprio in nome di Francesco II, si impadronì di tutte le leve del potere, disarmando il popolo e armando, attraverso la ricostituita Guardia Nazionale, i sostenitori dei "galantuomini". A quel punto, regnando ancora nominalmente Francesco II, la magistratura, le autorità municipali e le forze di polizia finirono saldamente in mano al nemico. Il popolo si ritrovò completamente abbandonato e soprattutto senza possibilità di comunicazione con la "classe dirigente borbonica" legalmente allontanata da ogni carica istituzionale.
Contemporaneamente, primissima operazione delle "autorità", fu quella di allontanare tutti i vescovi dalle loro diocesi, episcopato che, essendo di nomina reale, poteva costituire una serissima e autorevolissima opposizione. È da rilevare, inoltre, che la resistenza non iniziò quando vennero i piemontesi, ma cominciò proprio quando fu concessa la costituzione liberale, che anche alcuni vescovi, specie delle Puglie, contrastarono attivamente. Se ben si osserva, da un punto di vista strettamente giuridico, i primissimi moti popolari avevano infatti un carattere "antiborbonico", poiché andavano contro la costituzione, in altre parole contro un corpo di leggi del Regno delle Due Sicilie promulgate su espressa volontà del legittimo Re Francesco II di Borbone. Il popolo, in realtà, aveva compreso immediatamente tutta la malizia dei liberali e si era mosso per contrastarla".
L'opposizione armata, tuttavia, fu soltanto un aspetto della più vasta resistenza all'invasione piemontese, perché tale resistenza si sviluppò per anni in modo civile con proteste della magistratura e dei militari, con la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, con il rifiuto della classe colta a partecipare alle cariche pubbliche. Innumerevoli furono le manifestazioni di malcontento della popolazione, che si astenne spesso dal partecipare alle elezioni; non poche furono le iniziative di diffondere la stampa clandestina legittimista contro l'occupazione piemontese.
La resistenza duosiciliana, definita "brigantaggio", è stato analizzata e variamente spiegata, volendo dimostrare da una parte che essa era una specie di esercito sanfedista, sorretto dai reazionari duosiciliani, ma senza un capo carismatico, come lo era stato il cardinale Fabrizio Ruffo nel 1799; dall'altra che era un fenomeno esclusivamente sociale dovuto alle lotte contadine contro i cosiddetti "galantuomini", che avevano usurpato le terre demaniali e i beni della Chiesa, lotte che poi sfociarono nel crimine. In realtà, se qualcosa di vero di queste due tesi può essere considerata una componente di tutto l'insieme, è evidente dai fatti che tutto un popolo ha lottato contro l'invasione di un esercito considerato straniero e contro i collaborazionisti per lunghissimi anni. A questa guerra di resistenza, parteciparono, infatti, oltre ai contadini, militari del disciolto esercito duosiciliano, avvocati ed impiegati, operai e studenti, sindaci e magistrati. Numerosi furono anche legittimisti stranieri, particolarmente spagnoli, che fecero parte della resistenza duosiciliana. Il "brigantaggio", in sostanza, fu la reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia e della sua cultura. Una resistenza che avvenne spontaneamente, dunque, quando ormai, però, il Regno delle Due Sicilie, nei suoi gangli vitali, era controllato dagli occupanti piemontesi. Ben diversi sarebbero stati i risultati se Francesco II avesse egli stesso spronato tutto il popolo alla resistenza ancor prima che avesse avuto luogo l'invasione.
La resistenza duosiciliana iniziò con spontanei piccoli isolati episodi nell'agosto del 1860, subito dopo lo sbarco dei garibaldini provenienti dalla Sicilia. Inizialmente fu soprattutto la popolazione delle campagne che si rivoltò contro i comitati liberali filogaribaldini, ripristinando i simboli duosiciliani e i legittimi poteri nei vari paesi dell'entroterra. La resistenza divenne più consistente subito dopo l'occupazione piemontese e ad essa parteciparono migliaia di soldati duosiciliani sbandati, coscritti che rifiutavano di servire un'altra bandiera e persone d'ogni settore sociale. Divenne, poi, una vera e propria rivolta popolare quando le truppe piemontesi iniziarono una feroce repressione con esecuzioni sommarie e con arresti in massa. Nel corso dell'anno 1861 e del 1862 fu tutto un intero popolo che si sollevò, tanto che furono perseguitati anche il clero e i nobili lealisti che dovettero emigrare lasciando la resistenza priva di guida politica. Particolare attenzione fu data dagli occupanti all'informazione a mezzo stampa, mediante la quale era deformata qualsiasi notizia al fine di presentare la resistenza duosiciliana come espressione di criminalità comune e per nascondere le atrocità commesse dagli stessi invasori. Il compito di eseguire questa criminale azione di repressione fu affidato principalmente al generale Cialdini che ordinò eccidi, rappresaglie, saccheggi e distruzioni di centinaia di centri abitati per impedire che l'insurrezione diventasse del tutto incontrollabile.
Prima dell'invasione, della cosiddetta "Unità d'Italia" non se n'era mai sentita l'esigenza tra le restanti popolazioni italiane; trovare documenti o pubblicazioni che parlino di "spirito nazionale" prima dei "fatti risorgimentali" è estremamente difficile. L'idea unitaria, infatti, non ebbe mai alcun sostegno popolare: fu un pugno di massoni "borghesi", legati soltanto ad interessi materiali, a diffondere i cosiddetti "ideali risorgimentali"
Il colmo era poi dato dal Piemonte dei Savoia che, pur essendo francesi, dicevano di voler "liberare l'Italia dagli stranieri".
Il marchese Villamarina fu l'anello di congiunzione tra la dinastia sabauda e la massoneria che riuscì a "piazzare" Cavour, notoriamente massone, e uomo di fiducia degli inglesi, come primo ministro del Regno di Sardegna. Della libertà e della indipendenza degli Italiani, d'altronde, ai Savoia non interessava alcunché: il loro obiettivo era quello di espandere i possedimenti territoriali, utilizzarli ai loro interessi, rafforzarsi sempre di più sulla scena europea. Proprio questo, ma soprattutto la politica di rapina messa in opera a danno del Mezzogiorno d'Italia, è la dimostrazione di come, al di là delle dichiarazioni di unità e indipendenza, il Piemonte, sostenuto in questo dalla borghesia lombardo-veneta, arrivò al Sud con la mentalità del conquistatore.
Dal giorno della conquista, l'ex Regno delle Due Sicilie è diventato un grande mercato per i prodotti del Nord, mentre i suoi abitanti diventarono carne di cannone per le guerre che seguirono all'indomani della cosiddetta unità nazionale. E tutto questo avvenne con la complicità di una classe politica meridionale che è stata, purtroppo, sempre prona agli interessi delle lobby del cosiddetto "triangolo industriale". Di qui la nascita della cosiddetta "questione meridionale" e le continue devastanti «tangentopoli» che ci impongono da oltre un secolo e che dimostrano come certi interessi dei vecchi conquistatori sono rimasti inalterati.
Il Popolo delle Due Sicilie, in tutta la sua lunghissima storia, non ha mai fatto una guerra d'aggressione contro altre nazioni. Ha dovuto, invece, sempre difendersi dalle altrui aggressioni, fatte con le armi e con le menzogne. Ancora oggi dal Nord dell'Italia, per una congenita ignoranza, alimentata continuamente dalla falsa propaganda risorgimentale fatta instancabilmente dai vertici dello Stato "italiano", i Duosiciliani sono puerilmente aggrediti con violenze verbali e con luoghi comuni. Considerando tutti gli avvenimenti succedutisi dopo il 1860 ad oggi, si può affermare che con il "risorgimento" ebbe inizio quel processo politico, che, passando attraverso continue guerre suggestivamente etichettate, portò al fascismo prima, alla repubblica successivamente. Una repubblica che, mentre condanna il fascismo, esalta contraddittoriamente i cosiddetti «valori» del "risorgimento" che costituirono le fondamenta della retorica del regime.