LE CERAMICHE
Le porcellane della Real Fabbrica di Capodimonte rappresentano un altro prodotto di grande prestigio internazionale che il Regno poteva vantare.
Le Reali Manifatture furono il frutto della fusione di tradizioni artigianali e di sensibilità artistica dei ceramisti, della capacità organizzativa industriale degli imprenditori, della precisa volontà di Carlo di Borbone e di tutto l'ambiente culturale napoletano.
L'organizzazione del lavoro, la sua regolamentazione, la gerarchizzazione delle specifiche competenze, anche senza privare gli artisti-artigiani della loro autonomia, dimostrano che fin dal primo anno di attività (1741) le manifatture della ceramica erano parte integrante della storia industriale del Regno.
La stessa vastità e la qualità dei prodotti, gli sforzi fatti per l'organizzazione delle vendite, il successo incontrato come genere di consumo delle nuove classi emergenti con il loro desiderio di lusso, sono altri elementi per considerare le porcellane di Capodimonte un prodotto industriale e non una semplice "manifattura reale", il frutto di un semplice desiderio di un re, di una regina e di tecnici esterni della Sassonia, come spesso si è sostenuto29.
I primi anni furono dedicati quasi esclusivamente alla sperimentazione e alla ricerca partendo fin dalla determinazione dell'impasto e dai criteri per lavorarlo.
Con l'organizzazione di Joan Joachin di Montealegre e la sperimentazione di Livio Vittorio Schepers e del figlio Gaetano si arrivò alla composizione di una pasta tenera definita "porcellana", misto di "terre bianche" provenienti da Atri già usate in Abruzzo e un'altra dalle falde del Monte Maiella, la prima "gessosa, salina e plumbea, l'altra alcalina, assorbente e leggiera"31.
Tutti gli esperimenti di chimica e mineralogia effettuati furono successivamente codificati da una commissione scientifica verso la fine del secolo, con Ferdinando IV di Borbone32.
Con ricerche scientifiche simili per i colori furono raggiunti livelli di produzione di grande qualità.
Nella costruzione della fabbrica, all'architetto di corte Ferdinando Sanfelice fu affidato il compito di riadattare una palazzina del bosco di Capodimonte in precedenza abitata dalla Guardia Maggiore.
Seguendo i modelli industriali più moderni e, nello stesso tempo, le esigenze degli stessi ceramisti, Sanfelice realizzò una struttura funzionale e ospitale dove gli operai lavoravano coralmente conservando la propria individualità33.
Diversi appartamenti superiori, più o meno grandi a seconda dei nuclei familiari, ospitavano gran parte degli stessi lavoratori (93 nel 1758)34.
La struttura comprendeva: la Galleria del Modello (o delle forme), la Galleria della Pittura, una Camera degli Intagliatori, una Camera dei Tiratori di ruota (per lo stampo delle forme); vi lavoravano, oltre al compositore ed al suo assistente, molinari (per la macinazione delle materie prime), fornaciari (addetti all'accensione del forno e al mantenimento del suo calore), battitori d'oro (per la macinazione dell'oro usato nei colori), giornalieri, garzoni di stalla e custodi del magazzino35.
La fabbrica contava anche numerosi giovani apprendisti, dai 9 anni in su, il cui lavoro, però, era rigidamente regolato da uno statuto che prevedeva anche altre regole come l'orario del "travaglio" che andava "dal sorgere del sole a mezzodì" e, dopo un'ora per il pranzo (due nei mesi estivi) "procedeva fino alle 23 e mezzo"36: un orario che potrebbe sembrare massacrante secondo gli attuali contratti di lavoro ma che per l'epoca era del tutto normale anche nel resto del mondo.
Vi si producevano "zuccheriere, ciotole, caffettiere, chicchere, piattini, ciotole alla genovese, boccali, boccalini, fiaschetti, tabacchiere, cornetti e pomi di bastone, scatole a conchiglia di mare, scatole lavorate, cucchiaini" e statuine raffiguranti persone, animali, frutti o fiori37.
Anche dopo la pausa seguita alla partenza di Carlo di Borbone per la Spagna nel 1759 la fabbrica continuò la sua attività senza perdere mai qualità e originalità, nonostante la progressiva industrializzazione della produzione.
Tra arte e artigianato, tra manifattura e fabbrica, Capodimonte costituì un esempio importante per l'organizzazione del lavoro e per la formazione professionale anche in altri settori e la tradizione delle ceramiche, con dimensioni notevolmente ridotte e tra alterne vicende, resiste ancora oggi38.
Nel 1860 l'antica manifattura Giustiniani aveva raccolto in qualche modo l'eredità delle Reali Manifatture (entrate in crisi già durante il periodo francese) e dava lavoro a 60 maestri direttori e 120 adiutanti che producevano tutto ciò che si poteva produrre con l’argilla (proveniente, tra l’altro, dalla Sicilia, dalla Calabria, da Ischia, da Ponza o da Gaeta). Niccola Giustiniani detto anche Niccola Pensiere per il suo ingegno sagace, era arrivato a Napoli da Cerreto (dove la produzione delle ceramiche era già un’antica tradizione) e aveva incontrato presto un successo enorme perfezionandosi nella produzione delle maioliche abbellite con ornamenti di carminio, di azzurro e di altri delicati colori a smalto. Già alla fine del Settecento altri imprenditori avevano seguito il suo esempio: tra essi il Migliuoli, il Tressanti presso Foggia o Gennaro e Niccola Del Vecchio che ebbero in prestito da Ferdinando IV diciottomila ducati per fondare una fabbrica “ad imitazione delle stoviglie gialle degli inglesi”. Presto le stoviglie napoletane diventarono tra le prime d’Europa anche grazie all’abilità dei disegnatori che riproducevano forme e colori dei vasi greci e romani spesso estratti dagli scavi di Pompei ed Ercolano. Le stoviglie napoletane venivano così vendute in Francia, in Inghilterra, in Russia, in Germania, in tutta l’America e nel resto dell’Italia: tra i clienti italiani si ricordavano il Granduca di Toscana Leopoldo II e la regina di Sardegna Maria Cristina che adornò una sua villa con pavimenti che riproducevano mosaici romani39.
Produzioni simili, tra quelle artistiche e artigianali-industriali, erano quelle di piastrelle di cotto (le famose "riggiole") smaltate e decorate nel napoletano e nel salernitano ed esportate in molti paesi del Mediterraneo40.
Altre ceramiche e maioliche erano prodotte presso Teramo (36 fabbriche con esportazioni notevoli verso lo Stato Pontificio), presso la costiera amalfitana (soprattutto a Vietri) e nella stessa capitale41.
Circa una trentina le vetrerie e le cristallerie dalle dimensioni spesso modeste con una produzione di bottiglie, fiaschi, damigiane e bicchieri e vetri vari, in grado comunque di soddisfare i quattro quinti della crescente richiesta locale e di esportare a Tunisi, ad Algeri, a Malta e in America42.
Tra gli opifici più grandi quelli di Palazzo Donn'Anna a Posillipo (di Vincenzo Nelli), di S. Giovanni a Teduccio, nel Rerale Albergo dei Poveri (una vetriera e una cristalleria molto apprezzate), S. Arcangelo a Baiano, Aversa, Molina, Giffoni, Montecorvino o Bagnara Calabra, di San Giorgio a Cremano (di Giuseppe e Saverio Bruno), del Granatello a Portici (di Luigi Rossi) e di Vietri (per lastre e campane di vetro, che erano diventate molto di moda per coprire orologi, bronzi, vasi, fiori o altri soprammobili); verso il 1850, poi, Giuseppe Walh aveva ottenuto la privativa di un fornello di sua invenzione per lavorare in maniera innovativa i cristalli ed in modo particolare quelli destinati agli orologi.
La vetreria più importante, comunque, era quella di Vincenzo Nelli che nel 1822 ebbe la privativa per fabbricare cristalli in lamine e di ogni altra maniera. La fabbrica fu aperta “alle falde della ridente collina di Posillipo nel vasto edificio volgarmente appellato di Donn’Anna”. Successivamente una ricca Compagnia subentrò ai primi proprietari migliorando la produzione e la situazione societaria: “dopo pochi anni le nostre lamine di cristallo sostenevano non senza gloria il confronto di quelle giustamente vantate di Francia o di Germania e il Regno si sottraeva al tributo che era uso pagare agli stranieri e gli oscuri vetri della maestra Venezia sparivano anche dalle finestre delle nostre più picciole terre. Nel lusso sempre crescente di questa città nostra i sacri templi, la Reggia, i pubblici e privati edifizi presto erano forniti solo di lamine di cristallo della nostra fabbrica […]. Oggi questa bella manifattura, vinti tutti gli ostacoli, è fatta nazionale: gli operai venuti di Francia divennero napoletani per nozze contratte ed i loro figliuoli, ammaestrati in un’arte della quale i padri serbano tenacemente i segreti come patrimonio di famiglia, sono già nel numero dei lavoratori e non saprebbero abbandonare la terra dove sortirono la culla ed a cui sono legati con tenaci vincoli di affezione e di sangue… Nostre sono le materie adoperate e con somma diligenza si va cercando di rinvenire nel Regno al finissima silice che siamo obbligati a far venire dalla Francia”43.