CARCERE DI MASSIMA SICUREZZA «PER LA NEGAZIONE DI DIO»
«La negazione di Dio -nel Regno delle due Sicilie - eretta a sistema di governo.» E un passaggio della lettera scritta da lord Wililam Gladstone a sir James Aberdeen e diventò il tormentone per i Borboni; da una parola in su, tornava quella citazione che, nella sua semplicità, si portava dietro un'efficacia denigratoria travolgente. Il messaggio si trasformò in una specie di manifesto per la battaglia dei fuoriusciti napoletani che avevano in uggia Ferdinando e i Francesco e lavoravano per altre soluzioni di governo. Gli inglesi - che, senza bisogno di scomodare Dio, i diritti li negavano a irlandesi, scozzesi, indiani, pakistani, birmani, mediorientali, cinesi di Hong Kong e nordamericani - avendo già deciso che la leadership di Napoli doveva passare mano, si preoccuparono di tenere a disposizione delle copie di quello scritto, in modo da poterlo distribuire a chiunque. Riferivano che l'autore della lettera aveva visitato alcuni prigionieri ed era rimasto stordito per le condizioni - a suo dire bestiali - con cui venivano trattati. In realtà, se fosse accaduto proprio come la raccontavano, avrebbe dovuto apparire evidente una contraddizione di termini già grossolana. Ma come? Sarebbe duro e asfissiante un sistema carcerario che consentisse a uno straniero di visitare una prigione senza particolari autorizzazioni? Presentarsi ad alcuni detenuti... intrattenersi con loro.., conversare sulle condizioni di vita in cella... raccogliere lamentele in base alle quali la vita dietro le sbarre sarebbe stata tremenda? In realtà, lord Gladstone non era andato da nessuna parte, non aveva incontrato nessuno e, direttamente, non conosceva niente. Scrisse per sentito dire e - come qualche volta capita per le cose inventate lì per lì - le sue dichiarazioni ebbero un'amplificazione che ne decretò il successo. Ovviamente, le carceri borboniche erano carceri. Si differenziavano dalle residenze patrizie e dagli alberghi di lusso perché ospitavano persone che - per la legge del tempo -avevano qualche cosa da farsi perdonare e pagavano il loro debito con la giustizia in un regime che li privava della libertà e li sottoponeva a pesanti restrizioni. Le prigioni erano così in Gran Bretagna, in Francia, in Austria, a Milano e a Torino e, per la verità, sono praticamente così anche adesso, nonostante la giurisprudenza tenti di mettere in pratica il principio - accettato - in base al quale non si tratta di «punire» i detenuti ma di «rieducarli». Però, a voler azzardare dei paragoni, i penitenziari del sud erano quelli che si distinguevano per maggiore umanità. Francesco De Sanctis, in carcere per questioni politiche, ebbe l'opportunità di perfezionare lo studio del tedesco e di studiare le pubblicazioni di Hegel. Carlo Poerio si concava presto la sera perché non si sentiva molto bene, ma «poteva continuare a leggere, aiutato dalla luce che gli ardeva a fianco». Salvatore Castromediano, invece, non era in debito di salute e, prima di andare a dormire, si fumava il sigaro, come gli piaceva, passeggiando e aspirando boccate lente. Nel carcere di massima sicurezza di Montefusco, le celle erano arricchite da una «lamina di latta incerata» che, come le lavagne, consentiva di scriverci sopra: «Nacquero delle dispute letterarie che ci facevano passare il tempo con alquanto diletto». Tempi carbonari. Nel 1833 un frate, Angelo Peluso, ordì una congiura per sbarazzarsi del re Borbone, riuscendo a riunire cospiratori di varie ideologie. La rivolta - chissà perché, forse per sviare i sospetti - avrebbe dovuto avere una sorta di proemio ad Ariano Irpino e verso quella città, carico di proclami e di bandiere tricolore, partì un gruppo di ribelli. Vennero scoperti e non furono capaci di tenere la bocca chiusa, con il risultato che finirono in carcere un centinaio di persone, fra cui Piersilvestro Leopardi e il marchese Luigi Dragonetti. Poveri figlioli, chissà che cosa avevano in mente?! Il tremendo re «bomba» firmò un atto di grazia e li mandò tutti i casa con l'impegno di essere sudditi più fedeli o, almeno, meno malaccorti. Tutta la crudeltà descritta da Gladstone non appare. Qualche mese dopo, le indagini di polizia giudiziaria arrivarono al cuore della Guardia Regia a cavallo, dove il tenente Angellotti e i caporali Vittorio Romano e Cesare Rosaroll stavano tramando per ammazzare Ferdinando II. Si trattava di intervenire nel corso di una parata militare: il piano era ben congegnato ed era prossimo a diventare esecutivo. I magistrati verificarono le responsabilità degli imputati e, applicando il codice, li condannarono a morte. Il re intervenne ancora perché non aveva cuore di fare uccidere gente per un suo coinvolgimento diretto e fece trasformare la sentenza in modo che quei ragazzi fossero deportati su un'isola del Regno, utilizzata per mandarci a vivere gli «indesiderabili». Di nuovo, sfugge la spietatezza della propaganda patriottica di Gladstone. Ancora più in là nel tempo - 8 dicembre 1856 - un altro attentato contro il Borbone. Agesilao Milano gli sferrò un colpo di baionetta dritto in pancia e solo per uno di quei casi di cui è ricca la storia non lo aprì in due. Era un giovane di 19 anni che aveva studiato nel collegio italo-greco di Sant'Adriano, dove venivano ospitati i giovani delle colonie albanesi della Calabria citeriore. Già allora - ragazzo - con i fratelli Oloferne e Temistocle Conforti, era stato «segnalato» per qualche irrequietezza nei confronti della casa reale. Nella scuola non c'erano «cattivi maestri» e nemmeno fermenti libertari evidenti, ma questi tre - con nomi impegnativi -organizzarono una loro piccola rivoluzione privata. La sera, mettevano in scena dei processi alle statue del re, le condannavano, non facevano mancare il conforto religioso di un attore vestito da cappellano e poi sparavano a quei blocchi di marmo lavorato per eseguire la sentenza. Vennero scoperti e finirono nelle mani dei giudici che, per ciascuno di loro, decretarono pene severe. Il re, con atto di indulto, cancellò quelle decisioni per non sembrare troppo vendicativo. «Aggraziato», registrò il verbale della polizia che fu redatto a proposito di Agesilao Milano. Il quale, dopo l'esperienza del carcere e del tribunale, fece fatica a inserirsi nella vita di tutti i giorni. Bighellonò, per qualche tempo, tirando a campare, poi, essendo stato «estratto» suo fratello Ambrogio per il servizio militare e potendo presentarsi lui per sostituirlo, indossò la divisa della settima Compagnia del terzo Battaglione dei Cacciatori di linea. La gendarmeria - che i liberali descrivevano come occhiuta e opprimente - non fu in grado di mettere insieme il pezzo di carta che portava la domanda di arruolamento dell'interessato con un altro pezzo di carta che lo riguardava, giacente in tribunale, dove la futura recluta appariva come un pericoloso sobillatore. Così il fudilatore delle statue del re venne messo assai vicino al re in carne e ossa. Sul Campo di Marte, durante una parata, con lo Stato Maggiore schierato per assistere alle evoluzioni della truppa, Agesilao Milano uscì dai ranghi al galoppo, percorse poche decine di metri in direzione di Ferdinando II e, cogliendo un po' tutti di sorpresa, sferrò - dal basso - un colpo di baionetta. La lama finì sulla grande fondina della pistola e colpì il re soltanto di striscio. L'attentatore non ebbe il tempo di ritentare l'affondo: il tenente colonnello Francesco La Tour lo colpì sul braccio e altre guardie lo immobilizzarono. Il Borbone rimase al suo posto, premendosi con il gomito la ferita, in modo da tamponare il sangue. Quella volta la condanna a morte «col laccio sulle forche» venne eseguita. Ma fu anche l'unica. Delle 42 sentenze di pena capitale pronunciate dalla magistratura: 19 vennero tramutate in ergastolo, 11 in 30 anni di carcere e 12 a pene più miti. A Torino, dove governavano i liberali e i moderati, la mattina del 26 marzo 1856, il deputato di sinistra Angelo Brofferio sollevò in Parlamento la questione delle esecuzioni in Piemonte. Per questioni di giustizia, nel 1853, erano state uccise dal boia 28 persone. In Francia, nello stesso periodo, la ghigliottina era stata fatta funzionare 45 volte, ma la popolazione risultava di otto volte maggiore. Comprendendo il periodo 1851-1855, le esecuzioni in Piemonte erano state 113. «Gli incrementi della morte sono immensi.» Eppure tutto il mondo progressista si scandalizzò per l'impiccagione di Agesilao Milano. Fra i poeti, Laura Beatrice Mancini considerò il regicida «una tra le poche anime non dome». Fra i drammaturghi, Gian Franco latta compose un piccolo dramma per collocare quel ragazzetto in Paradiso con Dante, Gioberti, Rosmini e Carlo Alberto. La vittima venne celebrata dai patrioti. Garibaldi decretò una pensione per la famiglia del condannato, ma non ebbero il tempo di riscuotere nemmeno la prima rata perché Vittorio Emanuele II fece cancellare la decisione: in fondo era un re anche lui e non era bene essere indulgenti con i regicidi. Così era Napoli, un po' svagata e un po' superficiale, disattenta, disposta a slanci di generosità, senza badare alle conseguenze. Allora era la quarta città d'Europa e poteva gareggiare in sfarzo e ricchezza con Vienna, Londra e Parigi. La capitale partenopea trafficava con il mondo. Il porto allineava, in ordine sparso, le navi di tutti i paesi conosciuti. Erano vascelli eleganti, costruiti per andare a vela, sui quali avevano installato i motori e le ciminiere. I diplomatici portavano una ventata di internazionalità con
abiti diversi, accenti inconsueti, abitudini singolari. Festeggiavano le ricorrenze dei rispettivi
stati, invitando i rappresentanti di tutti gli altri o accettandone gli inviti, in modo da
partecipare con convinzione anche alle celebrazioni più insignificanti. Le strade si
popolavano di soldati di tutte le armi, ma, distri candosi fra linguaggi e dialetti molto distanti
fra loro, riuscivano a convivere con paciosità.
Le osterie erano rumorose, il vino abbondante e le ragazze vivaci.
Nobili e popolani convivevano sotto il cielo della stessa dolente rassegnazione. Le differenze
di censo erano marcate e si vedevano: quelli avevano di più di tutto, mentre questi dovevano
arrabattarsi tutto il giorno per mettere insieme il pranzo con la cena. Però stavano, gomito a
gomito, senza conflitti, come se quelle condizioni fossero state decise da un destino che non
poteva essere messo in discussione.
Anche il re poteva essere, indifferentemente, uno di loro.
Napoli restava una città mediterranea: colorata, talvolta sporca, tiepida anche nei giorni di
freddo, cordiale, avvezza a impicciarsi dei fatti altrui ma anche disposta all'ospitalità. Fra la
gente era tutto un rincorrersi di urla e di grida, per salutarsi, per offrire merce, per informarsi
della salute dei parenti o pregare per una cortesia. Tutto a cielo aperto, senza segreti né
vergogne. Spaghetti e mandolino, Pulcinella e il Vesuvio (con un filo di fumo) erano, già
allora, le immagini un po' stereotipate che disegnavano gli umori e il carattere della gente.
Era una città di esagerazioni, di contrasti e di eccessi che si esprimeva con un surplus di
decibel e con un gesticolare da teatro. Sarebbe da dire che era un popolo ottimista: non aveva
nulla, ma non invidiava nessuno e restava prigioniero della sua gioia di vivere. Si faticava, si
cantava, si pregava san Gennaro le feste comandate, si attendeva il carnevale che portava
l'albero della cuccagna con qualche prelibatezza da mangiare.
I Borboni cercarono di compiacere il loro popolo senza governarlo.
Il primo Ferdinando era «il lazzarone». Lo chiamavano così non tanto per rimproverargli
un'indolenza eccessiva, ma per accreditargli il merito di essere come loro. Il secondo
Ferdinando usciva in carrozza e i lazzaroni li trovava per strada. Lo aspettavano per fargli
festa, perché sapevano che, dopo qualche «viva 'o re», si toglieva il sigaro dalla bocca per
offrirlo loro. Era talmente obeso - con gli occhi bovini, il collo grosso, le guance cascanti - da
non riuscire a montare a cavallo e faceva impazzire il suo sarto obbligato a fare miracoli con
la stoffa per farlo stare negli abiti. «Maestà - protestava Michelino Lojacono - siete diventato
troppo grasso e la stoffa non tiene più: occorre rinnovare il guardaroba.» Ma stanziare
qualche migliaio di monete per delle giacche gli sembrava uno spreco: «Don Michè -
incoraggiava - voi siete un artista e mi accomoderete gli abiti». Si diminuì l'appannaggio di
180 mila ducati e ne tagliò 190 mila per le rendite dei beni familiari, in modo da recuperare i
soldi sufficienti a costruire alcuni tratti di ferrovia, progettare un ponte sul Garigliano - che
aveva le dimensioni e l'arditezza del Golden Gate di San Francisco - finanziare la bonifica
della zona di Manfredonia, realizzare una comunicazione col telegrafo per la Sicilia, piantare
la prima rete di illuminazione a gas.
Secondo l'economista Tommaso Pedìo «lo stato delle Due Sicilie era il più progredito».
Francesco Saverio Nitti si espresse con identiche valutazioni di merito. Nel 1856, Napoli era
considerata al terzo posto per lo sviluppo industriale, dopo Francia e Inghilterra. Il 51 per
cento della popolazione era impiegata in aziende che producevano tessuti, filati, macchinari,
porcellane, binari, locomotive.
Furono i Borboni a promuovere la prima banca in grado di emettere assegni circolari e capace
di ospitare la prima borsa merci. I titoli di stato erano quotati a Parigi e venivano pagati,
pronta cassa, come denaro contante, perché non v'era dubbio che il titolo sarebbe stato
onorato.
I liberali raffigurarono i Ferdinando e i Francesco con gli occhi iniettati di sangue, mentre
sembra che i filo-borbonici attribuissero al destino cinico e baro l'evolversi (e il precipitare)
degli avvenimenti.
Ferdinando, rispettoso per la religione e con una preghiera per ogni santo, digiunava per
devozione nei giorni dispari ma, goloso di pasta e di dolci, si rimpinzava nei giorni pari;
secondo un'equa divisione che prevedeva metà del tempo dedicato al Signore e l'altra metà a
se stesso. Il risultato fu deprimente, perché si ritrovò con una pancia debordante che gli
impediva di vedersi la punta delle scarpe e un sedere che lo trascinava indietro come se fosse
stato una zavorra.
Chissà di che cosa si ammalò. La sua pelle, rapidamente, si copri di pustole e di piaghe che
gli davano dolore e che - tanto puzzavano - infastidivano chi gli stava accanto.
Aveva programmato un viaggio in Puglia, quando si accorse che stava per morire. Chiamò il
figlio Francesco, destinato a regnare (per poco) con il numero due dinastico, lo benedisse e
gli chiese di rispettare la sua politica, che consisteva nell'essere amico di tutti e cioè di non
essere il nemico di nessuno. Non desiderava stringere accordi particolari con francesi,
austriaci o chicchessia. Meglio non lasciarsi trascinare dalle beghe dei regni dell'Italia del
nord e del nord Europa che si accapigliavano per questioni di nessun interesse come la
penisola di Crimea, finendo per assomigliare più a un pollaio di galli litigiosi che a una
società organizzata di stati sovrani. Restava convinto che le due acque sarebbero state la sua
difesa: quella santa del Papa a settentrione e quella salata del mare ai lati e a meridione. Con
protezioni tanto forti, non si sentiva obbligato a impegnative alleanze strategiche con altri
governi, non si sapeva quanto affidabili.
Francesco II si ritrovò con la corona in testa il giorno della battaglia di Montebello (20 maggio 1859), quando le truppe franco-piemontesi sconfissero gli austriaci nel corso della
Seconda guerra di Indipendenza. Aveva 23 anni, era serio ed educato, intelligente e studioso,
ma non era in grado di comandare nessuno.
In gioventù, aveva imparato abbastanza bene il latino e il francese, aveva studiato diritto
ecclesiastico e frequentato un corso di teologia. Mai un viaggio all'estero e mai un tiro di
scherma, perché pensava che sudare facesse male alla salute. Poteva, forse, dirigere la
Biblioteca Vaticana, ma certo non assumersi la responsabilità del Regno di Napoli.
Gracile fisicamente, con un accenno di gobba e lo stomaco ripiegato all'indentro, le spalle
secche come un attaccapanni, due occhi grandi che si fermavano sui fasti e sulle miserie con
lo stesso sguardo melanconico.
Il padre, che aveva un nomignolo per tutti, lo chiamava «lasagna» perché - inappetente con
tutto quello che c'era a tavola - si sentiva rasserenare lo stomaco solo quando gli presentavano
quel pasticcio di pasta, carne, uova e intingoli di pomodoro.
Sembrava vivesse fuori del mondo.
Per farlo sposare, la moglie dovettero trovargliela e il suo fu l'ultimo matrimonio reale
avvenuto «per procura». Senza conoscerla personalmente sposò Maria Sofia, figlia di
Massimiliano e Ludovica di Wittelsbach, sorella della più famosa «Sissi» che divenne
imperatrice d'Austria. Quando la vide, timido e impacciato com'era, rimase con le labbra
socchiuse senza riuscire a produrre suono per la sorpresa di aver incontrato una creatura tanto
bella. Continuò a restare senza fiato per giorni e giorni. A sera si inginocchiò davanti alle
statue dei santi che affollavano il palazzo reale e cominciò a srotolare i grani del rosario fra le
dita. «Annunciate alla mia sposa che farò tardi!» In fondo era solo la prima notte di nozze e
altre ne sarebbero venute. Si decise ad andare a letto solo quando fu ben certo che sua moglie,
stanca per le fatiche della giornata, fosse pesantemente addormentata. Si infilò sotto le
coperte sollevandone soltanto un lembo per non agitare le lenzuola e si rannicchiò nel minor
spazio possibile, in modo da evitare che qualche movimento brusco la potesse svegliare.
Ci vollero settimane per trovare qualche briciolo di confidenza. Le cameriere spiavano dal
buco della serratura. Non c'era intimità, ma nemmeno freddezza: lei, in camicia da notte,
seduta sul letto, con le gambe incrociate, a guardare lui che saltellava per la camera recitando
gag in dialetto napoletano.
Riuscì - sembra - a mettersi alla pari con i doveri coniugali di marito quando era già in esilio,
a Roma, e dopo un'operazione chirurgica che gli rimosse una fimosi proprio lì, sul prepuzio,
che gli creava degli imbarazzanti impedimenti.
Il mondo - il suo - gli stava crollando addosso e lui non se ne rendeva conto. Certo, non
sospettava che «i cugini di Torino» stessero tramando per mandarlo a spasso e prendergli il
posto. Con i Savoia erano parenti tre volte - pensava - perché non avrebbero dovuto
rispettarlo?
Una Borbone, Maria Antonietta, aveva sposato Vittorio Amedeo III, il padre dei fratelli Carlo
Emanuele, Vittorio Emanuele e Carlo Felice, che - per breve tempo ciascuno -regnarono
prima di Carlo Alberto. A lei, suocera di Maria Clotilde di Valois, la sorella del re
ghigliottinato Luigi XVI, toccava consolare la nuora che i torinesi contestavano perché la
vedevano troppo grassa. «Anch'io non piacevo loro. Dicevano che ero brutta. Ma adesso mi
vogliono tutti bene.»
Un'altra Savoia, Maria Cristina, figlia di Vittorio Emanuele I, era sua mamma pur se era
morta giovane lasciando lui orfano, giovanissimo. L'episodio che più aveva impressionato
Francesco II era stato proprio la dissepoltura della madre. Il cadavere fu trovato intatto e la
bara emanava un dolce profumo di violette. La gente gridò al miracolo e poiché la Chiesa
avviò un processo di beatificazione, tutti si lasciarono prendere dall'entusiasmo e -
precorrendo i tempi e superando le intenzioni - cominciarono a indicare la regina defunta
come «la santa».
Infine, il conte Siracusa che, in famiglia - per quel vezzo di prendersi un po' in giro -
indicavano come «don Popò», era il marito di Maria Vittoria di Savoia, che, quanto a
misticismo, gareggiava con Maria Cristina. Era ossessionata dal peccato e dal contagio che il
peccato produceva. Credeva che il suo sposo fosse una specie di essere infernale, tanto da
ridurre al minimo le occasioni per incontrarlo. Lui, in effetti, frequentava anche qualche
donnaccia, giocava alle carte e, parlando, infiorettava i suoi discorsi con parole poco
raffinate. Lei si ritirò in un alloggio molto riservato che considerò una specie di convento
dove occupava il tempo in devozioni. Se il marito passava a trovarla - cosa che succedeva
assai di rado - subito dopo, faceva disinfettare la sedia sulla quale si era seduto e pretendeva
che bruciassero gli indumenti che lasciava lì. Uniche pause a preghiere e penitenze: il tempo
da dedicare alle lettere di Cavour e alle risposte da inviargli, con consigli assennati su come
fare per prendersi il Regno di Napoli.
Francesco II - certo ingenuo, ma generoso di cuore - poteva pensare che i parenti lo volessero
diseredare?
Quando si accorse che lo stavano accerchiando per togliergli la seggiola del trono da sotto il
sedere si trovò senza argomenti, senza difese e senza piani da contrapporre.
Mentre lo stato si stava dissolvendo come la panna montata al solleone, consegnò le sue
speranze al Padreterno. Consumava le corone del rosario, sgranando paternoster e avemarie,
in attesa che dal cielo venissero precipitati alcuni fulmini capaci di rendergli giustizia sulla
terra. Era convinto che i poteri soprannaturali dell'aldilà, prima o poi, si sarebbero manifestati
rimettendo le cose al loro posto.
Un re con la testa fra le nuvole, certo. Ma, d'altra parte, chi avrebbe dovuto ascoltare? Si
trovò circondato da gente che lodava la monarchia in sua presenza, chiedendo, anzi, rigidità
di atteggiamenti, e poi la criticava appena lui voltava le spalle. I politici e gli ufficiali che
fecero la corsa per accasarsi sotto le insegne piemontesi erano gli stessi che volevano sparare
sulla folla a ogni piccolo movimento di piazza.
La regina madre incarnava l'Austria e la reazione. Lo zio, conte Siracusa, lo incitava a
stringere un'alleanza con i Savoia, che non ne volevano sapere. Il conte d'Aquila aveva
cominciato a prendere pose da liberale e forse pensava che la rivoluzione gli avrebbe portato
bene. E l'altro parente, il conte Trapani, si barcamenava fra tutti, convinto che i fatti - col
tempo - avrebbero dato ragione a lui.
La città era popolata di spie e grassatori che davano l'impressione di disporre di quantità di
denaro immense. Pagavano tutto quello che c'era da pagare: informazioni, consigli, volantini,
giornali clandestini, promesse di tradimento. La borsa era sempre aperta e Cavour, da Torino,
incoraggiava a non guardare il centesimo. In fondo si trattava di fare l'Italia.
Costò qualche decina di milioni. Realizzato il consuntivo, nel 1864, Quintino Sella, Ministro
delle Finanze di allora, fu nelle condizioni di presentare un rendiconto ufficiale attendibile. Il
deficit dello stato ammontava a 418 milioni nel 1862, diminuiti a 350 nel 1863. Fra le voci in
negativo comparivano 7 milioni e 900 mila lire attribuiti a «spese per la spedizione di
Garibaldi». il nero è rimasto nero e non si sa a quanto potesse ammontare.
A Napoli, in quei mesi, ogni cosa aveva un prezzo e ognuno aveva prezzi da presentare. Il
vero problema per Francesco II erano gli uomini di corte. A eccezione del principe Filangieri
che sapeva il fatto suo, era impossibile individuare una persona con un bagaglio minimo di
cultura, intelligenza e lealtà. I cosiddetti uomini di stato erano ignoranti, incapaci e corrotti. I
generali erano pronti a cambiare casacca alla prima difficoltà e al bagliore di qualche
convenienza. E tutti, con un cinismo davvero diffuso, ritenevano inutile sudarsi galloni e
promozioni, se bastava cambiare padrone per ottenere gli avanzamenti di carriera.
Il «direttore di guerra» Fonseca scopri di avere «l'artritide» e ritenne che quella fastidiosa
sensazione di spilli nelle ossa gli impedisse di offrire il suo contributo alla patria. Il cavalier
Antonio Spinelli, Presidente del Consiglio dei Ministri, abbandonò l'incarico perché a essere
malata era la moglie. Se ne andò il conte Trani, indispettito, a suo dire, per la timidezza con
cui venivano affrontati i filibustieri e per dare una dimostrazione di che cosa intendesse per
risolutezza si ritirò nella sua villa a giocare a biribissi con gli agenti segreti dei nemici.
L'imbecillità e il tradimento spiegano perché un regno sia crollato come un castello di carte,
ma non depongono a favore dell'ultimo scampolo di governo dei Borboni, che,
evidentemente, dimostrarono di non essere in grado di governare. La scarsa autorevolezza
allontana la fiducia piuttosto che accattivarsela.
Il Regno di Napoli aveva le ore contate.
Chi aveva qualche incarico era stato contattato dagli agenti mandati da Cavour che
garantivano avrebbe mantenuto il posto e, in qualche caso, addirittura lo avrebbe migliorato,
in cambio di un piccolo aiuto per facilitare il «ribaltone» dell'amministrazione. Non ci furono
problemi per il comandante delle guardie nazionali Achifie Di Lorenzo, per il luogotenente
Luigi Rendina, per il sindaco il principe D'Alessandro, per il vecchio generale Roberto de
Sauget. Andava bene anche per il Ministro dell'Interno Liborio Romano, che doveva
mantenere l'ordine sotto i Borboni e lo mantenne con i Savoia. Francesco II ebbe la
possibilità di andarsene tranquffiamente, senza impicci per strada e i nuovi padroni trovarono
il nuovo Regno con le porte aperte e la sua capitale in ordine.
LE CAMICIE ROSSE A PIANTO ROMANO
I Mille che partirono da Quarto erano il triplo (abbondante) dei 300 «giovani e forti» di
Pisacane, ma ugualmente male in arnese. Non vinsero per la forza del loro spirito, non per la
loro capacità di usare le armi, non per una strategia tattica sopraffina e nemmeno per
l'audacia delle loro azioni.
Testimonianza di parte piemontese, quella che ha vinto. «Quando si vede un regno di sei
milioni di abitanti e un'armata di 100 mila uomini, vinto con la perdita di 8 morti e 18
storpiati... chi vuoi capire... capisca. . .» I numeri che Massimo d'Azeglio comunicò, per
lettera, al nipote Emanuele erano approssimativi per difetto ma, quali che fossero le esatte
statistiche belliche, gli risultava chiaro che una battaglia vera non c'era stata.
Testimonianza di parte borbonica, quella che ha perso. «Scrivo perché mi sdegna vedere
travisato il vero.» Un ufficiale napoletano che rimase a Messina durante i nove mesi
d'assedio, poco dopo la fine delle ostilità, nel 1862, pubblicò un diario di ricordi firmandosi,
prudentemente, con le sole iniziali: G.L. «I napoletani si sono ritirati davanti a Garibaldi non
per magia ma per l'oro. E questo perché mille non possono batterne 100 mila e uno non può
batterne cento.»
steva una storia letteraria accreditata dall'intellighentia alla quale bisognava far mostra di
credere, cui se ne contrapponeva un'altra che ribaltava completamente valori e giudizi, ma
che non era nelle condizioni nemmeno di lambire - le carte ufficiali - per correggerne i
contenuti.
Come doveva finire la spedizione di Garibaldi era chiaro fin dal momento della partenza.
Non lo sapeva la maggior parte degli uomini in camicia rossa. Loro - gli avvocati, i medici, i
farmacisti, i «possidenti», il prete, l'ex prete e il «prete spretato» - credevano di partecipare a
un'azione di «commando», destinata a suscitare una rivolta popolare. Fra tutti, erano
intellettualmente onesti - questo sì - pensavano che si trattasse di un'iniziativa pericolosa e
mettevano nel conto che potesse anche finire male. Però, chi riteneva che per un ideale
valesse la pena rischiare qualche cosa, si rendeva conto che quello era il momento di giocarsi
tutto il coraggio che era rimasto. Potevano anche sembrare incoscienti, ma era impossibile
non riconoscergli le stimmate dei patrioti veri.
Si imbarcarono con entusiasmo il prestigiatore, l'apparatore di chiese, il girovago e il
causidico, lo scultore Giuseppe Tassinari, che aveva preso se stesso come modello per un
Mosè del cimitero di Staglieno, e Simone Schiaffino, che aveva il diritto di portare un
orecchino al lobo dell'orecchio perché aveva doppiato Capo Horn. Si mossero per correre
sotto i colori della bandiera i ragazzini come Riccardo Luzzato, che aveva 16 anni e riuscì a
convincere la madre a lasciarlo andare. O come Gaspare Tibelli, Angelo Vai e Luigi Adolfo
Buffi che, di anni ne avevano 17 e, per scappare ai genitori che li cercavano per riportarli a
casa, si nascosero nella stiva. Era animato da spirito autentico quello che risulta il più
anziano: Tommaso Parodi, che aveva 69 anni, ma portati assai bene, schiena dritta, sguardo
fiero e occhi ancora buoni che, per leggere, potevano fare a meno delle lenti.
Invece sapeva tutto Giuseppe Garibaldi. E non poteva non sapere.
Lui, comandante della spedizione, eroe dei due mondi, combattente per tutte le cause
libertarie che gli capitavano fra i piedi, era un personaggio attorno al quale era stata costruita
l'immagine del Robin Hood degli sfigati. Beninteso: non sempre così disinteressato.
Era un ladro di cavalli e, quando lo acchiapparono, per punizione gli tagliarono l'orecchio,
come era costume nella zona del Rio della Plata. Fu obbligato a lasciarsi crescere i capelli per
nascondere la ferita.
A Napoli decretò una pensione per la famiglia di Agesilao Milano, che, protagonista di un
fallito golpe contro il Borbone, era stato impiccato. Il regicidio doveva sembrargli un atto
nobile. Ma quando fu lui nelle condizioni di giudicare un giovane che, entrato di soppiatto
sotto la sua tenda, aveva cercato di ucciderlo, lo fece ammazzare senza processo. Secondo
Garibaldi attentare a Garibaldi era più grave che progettare di fare la pelle al re. E, da qualche
tempo, i suoi detrattori sostengono che fosse un negriero, trafficante di uomini, anche se
generoso perché gli schiavi arrivavano a destinazione «tutti grossottelli e in salute», buoni per
essere messi subito al lavoro.
La leggenda si impadronì di lui. Dicevano che era alto cinque piedi - un paio dei metri attuali
- e che, dopo ogni battaglia, si scuoteva il mantello per far cadere le pallottole che si erano
impigliate nelle maglie, senza ferirlo. In realtà, non veniva colpito solo perché stava
prudentemente alla larga dalla prima linea di fuoco. Spesso - altro che fisico d'acciaio -non
stava nemmeno bene di salute. L'artrite lo obbligava a coprirsi di strati di lana e di sciarpe,
avvolgendosi collo e orecchie tanto che, a volte, sembrava piuttosto la nonna di Garibaldi.
Scatarrava e sputacchiava, faceva sentire l'asma quando respirava e, la sera, si addormentava,
ronfando, come quei mantici sfiatati dei fabbroferrai.
Era agile se doveva rincorrere le ragazzine e, quando il marito si metteva di mezzo, peggio
per il marito.
In politica, lo consideravano un «babbeo» che non capiva niente e, più che tentare di
ragionare, si lasciava trasportare dal suo «spirito miope e ingenuo, incapace di illuminazione
e di prospetto.
Lento ma non fesso. Per troppe volte, durante le scorri-bande al di qua e al di là dell'oceano,
aveva verificato che cosa significava trovarsi di fronte a nemici in inferiorità per numero o
per armamento o per posizione strategica. E, dunque, non poteva non comprendere che i suoi
Mille, ricchi del solo entusiasmo, contro un esercito vero, avrebbero potuto trovare solamente
la gloria del martirio. In quelle condizioni, una partita giocata regolarmente non dava
speranze né di vincere né di impattare.
Dunque, se Garibaldi si imbarcò - quella notte del 5 maggio 1860 - fu perché era coperto da
tutte le assicurazioni nazionali e internazionali. Nemmeno l'ultimo intoppo gli procurò
problemi. Dovevano fargli avere alcune casse di fucili a carabina ultimo modello e, invece,
arrivarono quelli ad avancarica, utilizzati nel 1848, durante la Prima guerra d'Indipendenza,
che - già allora - si erano rivelati inadeguati. Ma se l'esito dello scontro era già stato
concordato, che importanza potevano avere gli schioppi da portarsi a spalla?
Garibaldi poteva dedicarsi alla poesia. Voleva scrivere una marcia che solennizzasse quel
momento.
«Lo straniero la mia terra calpesta
il mio gregge macella, il mio onor
vuoi strapparmz, ma un ferro mi resta
un acciar per ferirlo nel cuore.»
Per l'accompagnamento musicale pensò ai ritmi del coro della Norma di Bellini, che gli
sembrava sufficientemente gladiatorio e abbastanza deciso. Per le parole era più complicato
perché il generale, abituato con la spada, si trovava a disagio con la penna, evidentemente
troppo leggera e, a ogni strofa, c'era una sillaba che mancava o una che cresceva.
La missione godeva del copyright inglese che era nelle condizioni di pagare il prezzo per
ogni scrupolo di coscienza e comperare qualunque giuramento di fedeltà. Ammiragli e
capitani di vascello - in mare - generali e tenenti effettivi - sulla terraferma - concordarono,
ciascuno per proprio conto, il compenso per ritirare le loro truppe davanti al nemico,
scappando quando era ora di attaccare. Insieme al denaro, venne garantito che buona parte dei
traditori sarebbe entrata a far parte dell'esercito del nuovo Stato, conservando il grado, le
qualifiche, i comandi e lo stipendio. La promessa fu generalmente mantenuta e si realizzò in
tempi rapidissimi.
Quasi senza soluzione di continuità, 2.300 ufficiali che avevano inutilmente giurato ai
Borboni si trasferirono a ranghi compatti sotto la croce dei Savoia, alla quale riproposero la
loro placida fedeltà. Sembrò un trasloco: burocratico e scontato. Forse, talora, accadde che i
vincitori sui campi di battaglia (in teoria) si trovassero subordinati a quelli che (sempre in
teoria) sarebbero stati sconfitti e, certo, la circostanza deve aver prodotto qualche momento di
imbarazzo, ma venne risolta con brillantezza.
A corrompere l'armata del sud fu un piccolo tesoro del quale lo studioso Giulio Di Vita trovò
le tracce scartabellando negli archivi e fra i documenti delle logge massoniche di Edimburgo.
Risulta che - con un'operazione di colletta che coinvolse anche le comunità del nord America
- vennero raccolti tre milioni di franchi francesi. Il denaro venne convertito in un milione di
piastre turche che erano le mone-. te utilizzate nei porti del Mediterraneo per le transazioni
finanziarie, gli accordi commerciali e il pagamento «in nero». Si trattava di una specie di euro
dei mercanti dell'Ottocento che impediva di individuarne la provenienza e quindi - se si
voleva mantenere il segreto - evitare di risalire al creditore o al debitore.
Da tempo, oltre Manica, volevano mandare in fallimento il Governo del Regno delle due
Sicilie. La ragione principale risaliva a un contenzioso commerciale, esploso agli inizi degli
anni Quaranta, che aveva duramente contrapposto inglesi e Borbone.
La Gran Bretagna, attraverso le famiglie dei suoi capitani d'azienda, aveva un'influenza
economica spropositata nelle province attorno a Palermo. Fra le imprese che gesti-vano con
maggior profitto, c'era quella dell'estrazione dello zolfo, le cui miniere, sull'isola, venivano
considerate fra le più ricche e, essendo a cielo aperto, le più facili da sfruttare.
Lo zolfo, allora, valeva quanto l'uranio oggi e più della metà del prodotto estratto in Italia
meridionale prendeva la strada del mare, diretto a Londra, per i bisogni della corona e
dell'industria anglosassone.
In un primo tempo, i Borboni avevano garantito agli inglesi una sorta di monopolio. Poi,
avendo compreso che quegli accordi commerciali erano dannosi per la loro famiglia e per lo
Stato, tentarono di introdurre qualche elemento di concorrenza e affidarono una parte di
concessione ai francesi di Marsiglia della compagnia Taix e Aycard.
Fu lord Palmerston il primo a protestare per un atto che considerava una specie di esproprio e
contestò con il tono del padrone che esige riparazione piuttosto che con quello del governante
che chiede ragione al collega. I rapporti si guastarono. Re Ferdinando, alla festa del suo
compleanno, con una quantità di ospiti stranieri, non salutò la delegazione inglese presente
alla cerimonia. E riservò le sue attenzioni ai russi, lasciando intendere che là avrebbero potuto
approdare gli interessi politici e finanziari del sud Italia.
La guerra economica rischiò di diventare guerra guerreggiata. Vennero mobilitate le flotte e
almeno 12 mila soldati si tennero pronti per intervenire. Alla fine, per le premure degli stati
della Santa Alleanza, un giurì d'onore venne incaricato di occuparsi della questione. Con il
risultato che venne pronunciata una specie di sentenza del 21luglio 1840 in base alla quale
occorreva ripristinare le condizioni di monopolio industriale a favore degli inglesi.
Quel contenzioso, risolto sulla carta, lasciò uno strascico di rancore e di diffidenza che un
documento non poteva cancellare.
I rapporti fra i due governi erano del tutto compromessi e nessun atto formale di amicizia o di
reciproco rispetto avrebbe potuto rabberciare ciò che - definitivamente - si era rotto.
Qualche storico crede di spiegare l'ostilità della Gran Bretagna per il Regno delle due Sicilie
con ragioni religiose:
loro, anglicani per fede di stato, non tolleravano gli eccessi cattolici di quei sovrani di Napoli,
così fedeli al Papa da esser pronti a ogni liturgia. E Londra non aveva sopportato la
repressione - al limite della persecuzione - che, fra il 1825 e il 1832, venne ordinata in Sicilia
nei confronti dei «fratelli», affiliati alle logge massoniche.
Altri studiosi, invece, evidenziano l'importanza del quadro internazionale che si andava
delineando. Il Piemonte aveva stretto rapporti di ferro con la Francia, che era intervenuta
direttamente per consentire a quel piccolo stato di allargarsi in Lombardia. Per l'Inghilterra,
nei confronti di Torino, si trattava di dimostrarsi un'alleata altrettanto affidabile, in modo da
non perdere l'influenza diplomatica ed economica che si era guadagnata nel sud. Il meridione
d'Italia, in vista dell'apertura del canale di Suez, avrebbe aumentato la sua importanza
strategica e sarebbe diventato uno snodo geografico di primaria importanza.
Può darsi che tutte queste ragioni, intrecciandosi, si siano fuse, dando luogo al vero motivo
del contendere. Certo, le questioni in cui contano i soldi sono - da sempre - quelle che
valgono di più.
Comunque, da tempo, si era creato un clima di attesa, in vista dell'occasione propizia per
scatenare l'offensiva definitiva.
Nel 1856, a Parigi, si incontrarono Cavour e lord Ciarendon, inviato speciale di lord
Paimerston. A nome del governo di sua Maestà e della massoneria venne indicato quali erano
le intenzioni di Londra: defenestrare i Borboni e favorire un allargamento al sud del regno del
Piemonte. Gli ambasciatori James Hudson - a Torino - e Henry Elliot - a Napoli - erano al
corrente di questi progetti e stavano lavorando perché si realizzassero.
Controprova: Cavour, per lettera, all'ammiraglio Persano spiegò che si doveva tentare «di far
esplodere una sommossa antiborbonica», suggerendo il nome del possibile capo della rivolta:
«Un amico di lord Russel, di lord Palmerston e dell'ambasciatore Elliot». In altri messaggi,
sempre indirizzati a Persano, Cavour invitò a mettersi in contatto con l'ambasciata inglese e
in particolare con un certo Edwin James, esponente della sinistra liberale anglosassone, in
Italia su incarico di lord Palmerston, «persona in grado di prendere in loco gli opportuni
contatti per favorire il trionfo della causa italiana».
A Palermo, in un monumentale palazzo di via Toledo, il barone Pietro Riso organizzava delle
feste con periodicità settimanale. Al primo piano, quello nobile, si cantava e si ballava. Al
secondo, riunione politica fra gli emergenti siciliani che si consideravano filo-inglesi. Tina
Whitaker riportò nei suoi diari alcune impressioni: «Gli uomini, in abito da sera,
sgattaiolavano su per le scale, fra un valzer e una controdanza, dandosi da fare per preparare
una cospirazione».
A Napoli, il 7 luglio 1859, l'ammutinamento di due dei quattro reggimenti di mercenari
svizzeri consentì al generale Nunziante di licenziarli tutti, rimandandoli a casa, con il risultato
di sguarnire la difesa della città.
E, il 27 novembre 1859, sugli scalini della cattedrale di Palermo, accoltellarono il
responsabile della polizia borbonica, Salvatore Maniscaico, che conosceva tutti e che sarebbe
stato in grado di intervenire per bloccare iniziative rivoluzionarie.
Colpirono ripetutamente per ammazzarlo, ma riuscirono soltanto a ferirlo gravemente. Certo,
lo tolsero di mezzo per il tempo che bastava loro.
Garibaldi non aveva più niente da fare. Poteva continuare a litigare con la grammatica
poetica.
«Salve, a terra dei Vespri
il tuo destino
è d'essere grande!
Salve, a falange di gagliardi! O Mille
Guerrieri avventurosi
Invan l'invidia
Della canaglia vi dilagna.»
Il tempo dei ribaltone al trono dei Borboni sembrava maturo: annunciato da una quantità di
segnali che la finanza e la diplomazia europea avevano compreso e che, forse, sfuggiva solo
agli interessati. Del resto, è il marito cornuto l'ultimo che viene a sapere del tradimento della
moglie.
La campagna cominciò con l'acquisto dei vapori Piemonte e Lombardo, che stavano ancorati
nel porto di Genova. A dispetto di tutte le bugie raccontate nei libri di storia Garibaldi,
Cavour e Vittorio Emanuele li, davanti al notaio, dovettero firmare cambiali e fideiussioni
perché l'armatore Rubattino, destinato a passare nei blasoni del patriottismo disinteressato,
voleva vedere i soldi prima di consegnare le sue barche a quella compagnia di incursori.
I Mille partirono e - primo miracolo - riuscirono a raggiungere la Sicilia senza incontrare le
navi borboniche, gabbando il blocco della flotta più importante d'Europa. Evidentemente, i
comandanti napoletani portavano le loro squadre a bell'apposta da altre parti. I nocchieri in
camicia rossa, infatti, avevano scarsa esperienza di mare ed erano appena in grado di reggere
il timone. Raggiunta la costa di Marsala, uno dei due vapori riuscì a centrare l'entrata del
porto mentre l'altro si infilò in un cumulo di sabbia, incagliandosi. Il piccolo - piccolo? -
contrattempo mise in crisi lo sviluppo di una regia che doveva essere stata concordata nei
dettagli. Lo sbarco doveva avvenire lì e lo sapevano tutti quelli che, in qualche modo, erano
parte dei complotto.
Non a caso, l'ammiragliato inglese aveva spedito due navi - 1'Argus, al comando di
Winnington-Ingram e l'Intrepid del capitano Marryat - che stavano all'àncora di fronte a
Marsala. La flotta borbonica, invece, era previsto che, per qualche giorno, desse la caccia ai
fantasmi senza trovarli, per comparire, infine, sul luogo dello sbarco: abbastanza in ritardo
per potere intervenire efficacemente, ma sufficientemente a tempo per non perdere
completamente la faccia. Invece, per colpa delle secche che imprigionarono la chiglia del
vascello incursore, lo Stromboli - orgoglio delle bandiere della marina duosidiliana - si trovò
in vista di Marsala troppo presto e fu indispensabile inventarsi un'altra sceneggiata per
compensare le ore che quell'imbecille, al timone del Lombardo, aveva fatto guadagnare.
Lo Stromboli navigava alle dipendenze di Guglielmo Acton, giovane di belle speranze, antica
famiglia scozzese, abituato al the alle cinque del pomeriggio e padrone di uno splendido
inglese, con pronuncia appropriata e senza inflessioni dialettali.
Da giorni dava la caccia ai «filibustieri in camicia rossa» ma, vedendo quella gente - in
camicia rossa, per l'appunto -che tentava di guadagnare la riva aprendosi un varco nell'acqua -
chi boccheggiando con l'onda alla gola, chi un po' più in là, con il mare sui fianchi, e chi
finalmente verso la spiaggia con i polpacci sprofondati nella sabbia - venne colto alla
sprovvista. Non gli era chiaro che cosa stesse accadendo e dovette chiedere all'Intrepid «chi
fossero quei signori bagnati». Inglesi? «No. Non erano inglesi.» Tuttavia dalla nave
britannica ritennero necessario precisare che «molti ufficiali della union jack erano presenti a
terra».
Marsala era una specie di colonia di Londra: ci abitava, addirittura, il console. Dunque, con
raro senso della cava1-iena militare, il napoletano pregò che «venisse inviato un dispaccio
perché gli uomini della corona venissero richiamati a bordo, in quanto le sue artiglierie erano
sul punto di aprire il fuoco contro i drappelli che stavano sbarcando dal vapore». E che, nei
frattempo, continuavano ad affannansi con masserizie sulle spalle, a molo, fradici e
disorientati.
Detto: fatto. Venne chiesto alle autorità diplomatiche, e in particolare al viceconsole Cousins,
di alzare la bandiera della Gran Bretagna su tutte le case e i negozi appartenenti a inglesi,
dentro e nei dintorni della città. Il tutto con calma e fermezza in modo che le cose venissero
fatte per bene. All'inglese.
Sembra il resoconto di una gag ed è la testimonianza oculare del comandante Winnington-
Ingram in persona, che, anni più tardi, quando lo ritenne opportuno, pubblicò un suo libro di
memorie autobiografiche. L'autore precisò che, quando l'edizione stava per essere data alle
stampe, Acton «ricopriva l'incarico di Ammiraglio e ministro della marina italiana». Ma
anche se non fosse stato così brifiantemente promosso, ci voleva tanto per capire che era un
venduto?
«Intanto, una barca si staccò dal vapore napoletano e si diresse verso la nave in secca, ma
ancor prima di raggiungerla, come se l'equipaggio fosse stato preso da panico, batté in
velocissima ritirata.» Accidenti! A quel punto «il comandante Marryat, il signor Cousins e io
ci imbarcammo subito su una lancia per recarci a bordo della nave napoletana. Volevamo
pregare il comandate di dirigere bene il tiro dei suoi cannoni».
Certo, agli inglesi piacque lo charme del comandante napoletano. «Ci parve molto
impressionato per la responsabilità che la sua posizione gli creava ma promise di non
danneggiare la proprietà britannica, osservando che i suoi cannoni erano puntati in direzione
dei molo, contro i banditi.» Chissà quanto tempo è passato in convenevoli... «ci stavamo
allontanando per tornare alla nostra nave quando la fregata napoletana lasciò partire una
tempesta di proiettili». Finalmente anche l'ultimo di quei poveracci con le ossa bagnate si era
tolto dai piedi e si poteva sparare a volontà. Fuoco! Senza risparmiare proiettili! «I colpi ci
passarono sopra la testa ma il tiro era corto e non raggiunse il molo.»
Garibaldi stava già allontanandosi dalla spiaggia trascinandosi dietro mille uomini,
armamentario e vettovaglie.
La battaglia avvenne qualche giorno dopo - il 15 maggio 1860 - a Calatafimi. I memorialisti
pignoli precisarono che si combatté in località «Pianto Romano»: pianto nel senso che
avevano piantato una quantità di filari di vite e Romano perché la famiglia Romano era la
proprietaria di quel podere. Appena più indietro, sullo sfondo, il tempio di Segesta.
Garibaldi si alzò di buon mattino per bere il caffè e cominciò a fischiettare come un
innamorato. Dall'altra parte il generale Francesco Landi, con i suoi settant'anni compiuti, le
varici alle gambe, la schiena a pezzi e i calli ai piedi, non potendo correre il rischio di
montare a cavallo, usò la carrozza per raggiungere il posto destinato al combattimento. Con
calma. Aveva impiegato sei giorni per coprire una trentina di chilometri.
Le camicie rosse si lanciarono all'assalto con entusiasmo, brandendo quei loro fucili a pietra
focaia che si inceppavano con una percentuale superiore al 50 per cento. Non sparavano, ma
erano molto pesanti.
L'attacco avvenne senza ordine né disciplina - alla garibaldina - sul pendio a nove terrazze
che andava scalato per raggiungere i nemici, piazzati, lassù, ad aspettarli. I Mille dispersero il
loro ardore in quella sgroppata in salita che tagliò loro le gambe e il fiato. Chi riuscì ad
arrampicarsi fino in cima, arrivò con la lingua penzoloni, le gambe molli e gli occhi dilatati
che vedevano doppio. Sentivano la tromba che squillava la ritirata e convennero - i patrioti -
che era meglio così: non si poteva andare avanti. Solo che, in quelle condizioni di
spossatezza, non era nemmeno semplice fare dietro front o anche solo lasciarsi cadere
all'indietro. Appoggiati alle canne dei loro inutili fucili, i pochi atleti capaci di saltare fin sulla
gobba della collina tentavano di recuperare il controllo del fiato che pompava nei polmoni in
modo anche preoccupante. E si meravigliarono, non credendo a occhi e orecchie, quando si
accorsero che il segnale di abbandonare la contesa non era stato lanciato dalla loro tromba - il
caporale Beppe Tironi - ma da quella borbonica, che ordinava ai nemici di tornare indietro.
Impossibile?
Si disse che il generale incassò 14 mila ducati d'oro ma che, alla fine della guerra, scoprì che
il documento per accreditargli i soldi non era valido e non poteva incassare niente. Morì
l'anno successivo, ma i suoi cinque figli non ebbero problemi: tutti ufficiali superiori
nell'esercito dei Savoia, diventato esercito italiano.
Calatafimi venne presentato come il teatro della battaglia del «qui si fa l'Italia o si muore»,
dando a intendere che si scontravano due eserciti ma anche due mentalità: da una parte un
mondo superato e sorpassato - borbonico per l'appunto - con le sue inefficienze e le sue
crudeltà, tutto imbevuto di vecchiume, con la testa rivoltata all'indietro, destinato a ripiegarsi
sulle sue oziosità, incapace di immaginare un futuro di progresso, mentre dall'altra ecco
affacciarsi il nuovo, con la sua carica di energia e di romanticismo, intreccio di coraggio e di
buoni sentimenti, altruismo e patriottismo, che voleva cancellare un passato oscuro per
affacciarsi di slancio alle soglie della nuova era.
Uno scontro epocale dove ognuno giocava tutto quello che aveva e spendeva fino all'ultima
goccia del proprio sangue? La battaglia non ci fu. I garibaldini fecero quella corsa podistica,
per i dirupi scoscesi di una collina, ma non si scontrarono nemmeno con i borbonici.
Il bilancio dello scontro fu di trenta morti e non tutti per mano nemica. Alessio Maironi aveva
una gamba che - colpita di striscio da un proiettile - buttava sangue in modo preoccupante.
Un compagno che, forse, credeva di avere qualche rudimento in fatto di medicina, gli
schiacciò una moneta di rame sulla ferita per tamponargli l'emorragia. Invece gli provocò
un'infezione di tetano che l'ammazzò in un amen.
Luigi Martignoni, invece, scelse di farla
finita da solo. Era tormentato da una cancrena che gli faceva soffrire le pene dell'inferno e
che, ormai, lo lasciava in pace soltanto se faceva ricorso a dosi potenti di oppio. Ottenne che
gliene lasciassero usare una quantità sufficiente per non tribolare più.
In campo avverso le perdite furono «leggermente inferiori». I napoletani devono essersi fatti
male da soli, mentre si piazzavano sul cocuzzolo del Pianto Romano o mentre se ne
andavano, anche se le cronache rilevarono che «le milizie borboniche, ordinatamente,
manovrando con garbo e prudenza, iniziarono a retrocedere, si sganciarono dagli avversari
per riprendere la marcia in colonna».
Chi ha visto il posto e studiato la planimetria dello scontro si rende conto che i Mille non
potevano vincere e che i borbonici li avrebbero sconfitti, anche se avessero lanciato soltanto
sassi contro quelli che salivano arrancando. I borbonici potevano fare a pezzi le camicie rosse
e si comportarono come se fossero stati a un'esercitazione.
DON LIBORIO E "'O CHIAZZIERE"
NANNARELLA E «QUATTRO RANE»
La recita di Pianto Romano fu importante perché consentì a tutti - ma proprio a tutti - di
comprendere che i giochi erano fatti. Chi voleva accodarsi per soccorrere il vincitore doveva
affrettarsi. Non che, dopo, sarebbe stata esclusa l'opportunità del salto della quaglia - ci
mancherebbe - ma, certo, arrivare un attimo prima consentiva di vendere un po' meglio la
propria parte e ottenere qualche risultato personale in più.
Alcuni capi della mala-Sicilia che potremmo definire «mafiosi» osservarono quel primo
scontro fra eserciti, tifando per i rossi, ma - ancora - senza prendere parte direttamente alla
contesa.
Nelle settimane precedenti, erano stati avvicinati da Giovanni Corrao, il quale era,
contemporaneamente, un patriota e un uomo d'onore, capace di contatti solidissimi con tutti
quelli in grado di adoperare uno schioppo. Proprio lui era riuscito a convincere «gli amici» e
gli amici degli amici che occorreva abbandonare il vecchio regime per facilitare la nascita di
quello nuovo.
«Picciotti» e «capibastone» erano pronti e avevano anche dei riferimenti organizzativi precisi.
Pietro Tondù, di Carini, doveva occuparsi dei rifornimenti; Giovanni Battista Marinuzzi, pure
di Carini, teneva la cassa; Giuseppe Bruno, di Belmonte Mezzano, aveva l'incarico di
assicurare i collegamenti fra diversi gruppi; Salvatore La Barbera e Salvatore Nicolò
Ramacca avevano accettato il compito - delicatissimo - di gestire l'arsenale e la sua
manutenzione; Andrea Sodano, di Piana dei Greci, era il capo degli «informatori» e, infine, il
servizio delle guide e degli esploratori era stato affidato a Andrea Guidara, di Boccadifalco,
con Carlo Trasselli e Rosario Salvo, di Pietraganzii.
Si mossero in migliaia da 35 paesi della provincia di Palermo e da 15 borgate cittadine e
vennero divisi in squadre di venti uomini ciascuna. In attesa di Garibaldi che doveva arrivare
ebbero il tempo di corrompere e intimidire, ora con garbo e, quasi, con cortesia, ora con
severità e, addirittura, con asprezza.
Significativo, per esempio, il contributo offerto personalmente a Garibaldi dall'industriale
Ignazio Florio e quello di «don» Vincenzo Favara di Mazara del Vallo, titolare del più
importante «banco di prestanza», che collaborò all'impresa con 100 mila lire. Così Stefano
Triolo, barone di Sant'Anna di Alcamo, si presentò capeggiando 350 armati e, qualche tempo
dopo, il fratello Giovanni arrivò con altri 250.
Giuseppe Coppola scese da monte San Giuliano d'Erice alla testa di 765 volontari, un carico
di munizioni inglesi e una buona provvista di viveri. Calogero Amari Cusi raccolse altri 600
«picciotti» nella zona di Castelvetrano e si unì alla colonna in marcia.
Tutta gente disinvolta: erano capaci di stare a cavallo senza impaccio, portavano lo schioppo
di traverso sulle spalle e nella cintura dei pantaloni riuscivano a infilare una quantità di
rivoltelle e di pugnali. Cesare Abba li descrisse come «montanari armati fino ai denti, con
certe facce sgherre e certi occhi che paion bocche di fucile». Non avevano prestato servizio
militare, ma sapevano come ammazzare il prossimo.
A Partinico un gruppo di loro si imbatté in una squadra di borbonici, in ritirata dopo Pianto
Romano, e li fecero letteralmente a pezzi. Le camicie rosse che arrivarono qualche
tempo dopo trovarono cadaveri sfigurati, appesi per i piedi, a testa in giù. Trattennero a stento
qualche disappunto - e non erano mammolette neppure loro - ma la ferocia del combattimento
faceva parte della tecnica della guerriglia di mafia, perché accresceva la paura degli
avversari, li atterriva e quindi li rendeva più deboli fin dall'inizio, favorendo la diserzione e il
tradimento.
La mafia lavorò con scrupolo, preoccupandosi di preparare il clima politico e di radunare il
pubblico delle grandi occasioni. Quando l'eroe dei due mondi si affacciava all'ingresso dei
paesi lo aspettavano in processione e cantavano le canzoni delle loro feste. A Misilmeri, i
Mille e i picciotti che li accompagnavano vennero accolti con fiaccolate, luminarie, fuochi
d'artificio e brindisi. Si presentarono anche tre ufficiali della marina britannica. A leggere il
loro resoconto, sembrerebbe un avvenimento del tutto casuale. Figurarsi: con la campagna
popolata da gente armata e, in qualche caso, non troppo raccomandabile, questi gentiluomini,
rappresentanti di uno Stato neutrale, in un paese in preda a rivolte di incerte dimensioni,
avrebbero optato per una passeggiata in carrozza, in cerca di relax. Attraverso strade
normalmente quasi impraticabili, giunsero a un incontro «allo stesso tempo, fausto e
inatteso». Gli ufficiali «si meravigliarono di sapere che il Generalissimo sedeva a pranzo in
un vicino vigneto e accolsero con un fremito di gioia il messaggero che li invitava alla sua
tavola». Come resistere al privilegio di stringere la mano a quel genio della strategia militare?
«Il più soave degli ambasciatori non avrebbe potuto ammaliarli più del guerriero in camicia
rossa che, nel loro stesso idioma, disse cose tanto lusinghiere dell'Inghilterra.» Offrì fragoline
di bosco e calici in alto per augurarsi rispettive fortune.
Poco dopo - ma sempre per caso - furono due ufficiali americani a rendere omaggio a
Garibaldi. I resoconti non riferirono il menù dei cibi e delle bevande offerte, ma precisarono
che uno degli ospiti lasciò in dono la propria pistola. Il giornalista Ferdinando Eber, che era
ungherese di nascita ma che scriveva per il «The Times» di Londra, insieme a Michele Pojero
arrivò con la carta topografica della città. Corrao, invece, solido e sbrigativo, volle presentare
all'eroe dei due mondi Turi Miceli, il coordinatore dei «picciotti» e capo della mafia di
Monreale. Fu lui a rassicurare gli ufficiali dello Stato Maggiore che sembravano intimoriti dal
dover marciare su Palermo. Tranquilli - li rincuorò - era tutto a posto. I «nemici» non
avevano dato battaglia fino a quel momento e non avrebbero cominciato a combattere allora.
I suoi erano all'erta: i garibaldini potevano decidere con calma quando muoversi. Lo fecero il
27 maggio (1860), di mattina, alle sette. Seguirono i sentieri utilizzati dai contrabbandieri e si
trovarono dentro le mura della città.
La difesa non sarebbe stata comunque accanita. Il generale Giovanni Lanza che comandava i
borbonici era molto più vecchio dei suoi 73 anni compiuti e con nessun fatto d'arme
significativo alle spalle da citare a titolo di merito. L'unico episodio che si raccontava di lui
era quella volta che cadde da cavallo, durante una parata in grande stile, davanti al re in alta
uniforme e direttamente dentro una pozzanghera. Tenne 18 mila uomini asserragliati a
palazzo reale impedendo loro, di fatto, di partecipare al combattimento. Il generale Cataldo,
con 4 mia uomini, senza ancora aver sentito una schioppettata, abbandonò la posizione e si
ritirò più indietro. L'ospedale venne perduto «per viltà del comandante e per i tradimento del
cappellano».
Lasciarono incustodite le carceri della Vicaria: 2 mila detenuti arrabbiati e
inferociti uscirono dalle celle e si lanciarono all'inseguimento delle divise borboniche perché,
massacrando gli uomini, credevano di prendersi una rivincita sui soprusi che la legge aveva
inflitto loro. Masino Chinnici di Misilmeri, «il boia borbonico» che, in passato, non era
andato per il sottile cambiò casacca e cominciò a combattere dall'altra parte cori identico
impegno e accresciuta determinazione.
Dal mare, il comandante Flores, a bordo dell'Ercole, iniziò a bombardare le zone presidiate
dai garibaldini. Avrebbe dovuto farlo anche il capitano del Partenope Cossovich, il quale,
invece, si sforzò in ogni modo per mandare i colpi il più lontano possibile dagli obiettivi. Per
sparacchiare tutto il giorno senza riuscire a prendere nulla dovette impegnarsi assai.
Anche a Giuseppe Buttà, fedele al Borbone, testimone di quegli scontri e divulgatore dei suoi
ricordi, risultò impossibile spiegare tutta questa idiozia bellica senza dar credito alla voce che
indicava per ciascuno il prezzo pagato per il tradimento.
Dopo tre giorni di questo sedicente combattimento, al pari di quello al Pianto Romano,
Lanza, con la guarnigione al completo, chiese agli inglesi di proporre una tregua poiché lui,
personalmente, era a disagio nel trattare con quel filibustiere di Garibaldi. Gli risposero che,
essendo diplomatici in terra straniera, non avevano né titolo né autorità per avventurarsi in
una mediazione del genere. Perciò, fu obbligato ad arrangiarsi da solo e scrisse a «Sua
Eccellenza il generale Garibaldi», tutto in maiuscolo, nella più prona reverenza.
Le camicie rosse non avevano più un colpo da sparare e sarebbero state sbaragliate. Il
generale Colonna e i generale Sury stavano contrattaccando vittoriosamente, ma vennero
fermati. Era stata firmata la tregua! Dall'altra parte della città il maggiore Ferdinando Del
Bosco stava impegnando i nemici con successo, ma venne fermato anche lui. I capitani
Bellucci e Nicoletti fecero la corsa per raggiungerlo e - sudati, come non sarebbe chic per un
ufficiale - lo richiamarono al senso della disciplina. Non si poteva sparare né incrociare le
baionette. La tregua diventò armistizio e venne trattato dai generali Letizia e Bonopane, i
quali posero condizioni così irrisorie che gli avversari ebbero soltanto i problema di
mascherare la soddisfazione. Praticamente l'esercito del re delle due Sicilie chiedeva di
andarsene. Lanza, davanti a tutti, guidò la marcia di qualche decina di migliaia di soldati che
sfilarono davanti ai garibaldini, i quali, nonostante i rinforzi dei picciotti, erano ancora in
numero assai minore e, soprattutto, male in arnese. Per questo un militare borbonico tentò di
obiettare: «Ma Eccellè, vedete quanti siamo... e ce ne dobbiamo andare...? !». La risposta fu
tagliente: «Zitto, ubriacone.., zitto, guarda avanti e cammina».
Quando Lanza arrivò a Napoli, il re gli proibì di sbarcare e pretese che venisse confinato
all'isola di Ischia in attesa che la Corte Marziale lo giudicasse. il processo, in realtà, non poté
celebrarsi e il vecchio generale si consolò, riposandosi, in attesa che finisse tutto quel
trambusto.
A rinforzare le fila di Garibaldi, quasi contemporaneamente, arrivarono il conte Amilcare
Anguissola, che comandava la pirofregata a due ruote Veloce e la contessa Della Torre, che
era stata a Milano per le cinque giornate, aveva partecipato alla stagione della Repubblica a
Roma e non poteva mancare in Sicilia.
Il capitano consegnò se stesso e la sua nave che venne ribattezzata con il nome di Luigi
Tukory, uno dei Mille, volontario ungherese, morto in un assalto e diventato eroe. La
nobildonna, invece, stivali, speroni e cappello con piumazzo - come nei film di cappa e spada
- prese a frequentare gli accampamenti dei soldati, denunciando i suoi spostamenti con il
cigolare della spada che teneva appesa al cinturone. Sembrava un'opera buffa, ma la Sicilia
era perduta e Garibaldi si prese anche la Calabria: nel senso che gliela lasciarono prendere.
L'ammiraglio Salazar, che, pure, doveva controllare una porzione di mare relativamente
piccola e un tratto di spiaggia davvero breve, riuscì a fare meglio dell'ammiraglio Acton: a
Marsala e condusse la sua flotta così lontano dalla zona strategica da impedirsi di vedere le
camicie rosse. Garibaldi, sul Frankkn, attraversò i quindici chilometri dello stretto e approdò
a sud di Reggio Nelle sue memorie ammise che «l'aiuto» che gli era stato dato dalle navi
borboniche e da quelle inglesi fu «decisivo». Dietro di lui, Bixio, sul Torino, fece forzare le
macchine al massimo della potenza e andò a incagliarsi sulla spiaggia Non si sa se il
timoniere era lo stesso che porto il Lombardo nella sabbia di Marsala. La differenza con il
primo sbarco consistette nel fatto che, questa volta, nessuno si accorse di centinaia di uomini
obbligati ad arrancare un paio d'ore per togliersi da un bastimento rovesciato di trenta gradi.
Fu l'unica fatica imprevista che dovettero affrontare. Guadagnata la terra ferma, ebbero il solo
problema di marciare avanti. I borbonici, con un passaparola che aveva coinvolto la maggior
parte degli ufficiali dello stato maggiore, si erano convinti a non opporre troppa resistenza.
Il generale Alessandro Nunziante, antica famiglia di blasone dorato, esempio - fino a quel
momento - di dedizione al Borbone, inviò le dimissioni al re e si ritirò dalla guerra per
partecipare ai pranzi organizzati dagli inviati del conte di Cavour.
Il generale Gullotti, prima ancora che i nemici comparissero da lontano, aveva già telegrafato
a Napoli descrivendo come «disperata» la sua situazione. Peggio: «Senza pronto aiuto, qui, vi
è poco da sperare». Il generale Melendez si fece circondare a bella posta e, quindi, si arrese
con 3 mila uomini armati fino ai denti davanti a una sola squadra di garibaldini che non
sapevano come fare per custodire, da soli, tutta quella gente.
Si arrese il generale Briganti, che però pagò cara la sua decisione. A cavallo, in borghese, si
imbatté in un gruppo di reduci borbonici che lo riconobbero e lo investirono di urla: «Viva 'o
re!». E poi: «Traditore!», «Traditore!», «Tra-di-to-re!». Una fucilata lo abbatté e i soldati,
rabbiosi per l'umiliazione che dovevano sopportare, lo spogliarono, trascinarono il cadavere
per la strada e lo fecero a brandelli.
I militari semplici, a differenza dei superiori, restarono fedeli al giuramento prestato sulle
bandiere di Francesco II e non accettarono facilmente di servire i nuovi padroni. Soldati
analfabeti tennero testa agli ufficiali sabaudi che li volevano convincere a cambiare divisa. Il
generale La Marmora non apprezzò il loro senso dell'onore e li chiamò «carogne». Su 1.600
prigionieri, ammassati in una specie di campo di concentramento allestito alla periferia di
Milano, «non arrivano a 100» coloro che accettarono di affiancare i piemontesi in guerra.
Cavour consigliò di «mandare a casa coloro che avevano più di due anni di servizio» perché,
probabilmente, irrecuperabili, mentre si doveva «tenere sotto le armi i giovani», che - si
supponeva - avrebbero accolto il nuovo corso con meno riottosità.
L'esercito di «Franceschiello», passato dalle cronache alla storia per descrivere un'armata di
fannulloni, deve riferirsi soprattutto ai gradi superiori, da capitano in su. Nella stessa famiglia
reale - cugini, zii e fratellastri - non si preoccuparono più di tanto: quando si accorsero che la
barca del loro stato faceva acqua, la abbandonarono per salire su quella dei piemontesi che
stava provocando il naufragio. Non a caso, il giornale satirico francese «Charivari» pubblicò
una vignetta nella quale comparivano un soldato borbonico, un sottufficiale e un ufficiale. Il
primo aveva la testa di un leone, il secondo di asino e il terzo, la testa, non ce l'aveva proprio,
ma dalle tasche uscivano mazzette di denaro. Fra gli alti gradi chi tradiva, chi dava le
dimissioni e chi dava le dimissioni per tradire più in fretta.
Il generale Ghio firmò la rinuncia al comando, ma, siccome non venne sostituito in tempo, si
consegnò con tutti gli uomini del reparto al garibaldino Cosenz.
Il 4 settembre (1860) consigliarono a Francesco II di abbandonare la capitale: restarci stava
diventando pericoloso. Il re chiese loro di metterlo per iscritto: quasi tutti firmarono. Il
principe Ischitella non si trattenne dal mandare in scena un piccolo colpo di teatro e, dopo
aver aggiunto il suo nome a quello dei colleghi, spezzò la penna. Nella notte fra il 5 e il 6
settembre si preparò il trasloco verso Gaeta.
Il giovane Borbone si congedò con dignità firmando un proclama dove retorica e umanità si
fondessero fino, quasi, a coincidere. «Fra i doveri prescritti, quelli dei giorni di sventura sono
i più grandiosi e solenni e io intendo compierli con rassegnazione scevra di debolezze, con
animo sereno, e fiducioso.» Certo, non rassegnato. «Io protesto contro queste inqualificabili
ostilità sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l'età presente e la futura.» La decisione
di andarsene era obbligata. «La guerra si avvicina alle mura della città e con dolore ineffabile
io mi devo allontanare. Discendente di una dinastia che per 126 anni regnò in queste
contrade, sono qui. Io sono napoletano né potrei senza grave rammarico dirigere parole
d'addio ai miei amatissimi popoli.» Le promesse: «Serberò amorevoli rimembranze». Gli
incoraggiamenti: «Raccomando la concordia: che uno smodato zelo per la mia corona non
diventi face di turbolenze». E la speranza: «Sia che per le sorti della presente guerra io torni
in breve fra voi o in ogni altro tempo piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono dei miei
maggiori».
Se ne andò senza curarsi di un tesoro di gioielli e di una quantità di opere d'arte. Ordinò che
gli imballassero soltanto un Raffaello e un Tiziano, ma si preoccupò personalmente di
trasferire 66 reliquiari fra cui l'urna con il corpo di sant'Ausonia. Lasciò in banca un
patrimonio di 11 milioni di ducati e non badò all'argenteria, che sparì quando il corteo regale
aveva appena svoltato l'angolo.
Con straordinario tempismo Garibaldi, risalita la penisola, era pronto a entrare in città per
essere ricevuto con tutti gli onori. La sera stessa era già a Salerno e ci arrivò in treno anche
se, un anno dopo, la stazione non c'era più. I piemontesi avevano strappato le rotaie e le
traversine, smantellato le pensiline e trasferito le locomotive: tutto al nord per vantare un
progresso da contrapporre all'arretratezza del sud. L'eroe dei due mondi doveva incontrare i
maggiorenti napoletani: il comandante del battaglione delle guardie nazionali, Achille Di
Lorenzo, e il luogotenente Luigi Rendina, con il sindaco il principe D'Alessandro e con il
vecchio generale Roberto de Sauget. A quel primo appuntamento mancò - assenza più che
giustificata - Liborio Romano, Ministro dell'Interno uscente con l'ambizione di essere anche
l'entrante. Perché no? Mandò un biglietto di saluti per mettersi a disposizione e preparò
un'accoglienza trionfale al generalissimo in camicia rossa. Ovviamente, non poteva fare tutto
da solo e, per essere certo di riuscire come lui voleva, si fece aiutare da alcune persone «di
rispetto». Si trattava dei gentiluomini abituati a frequentare la bettola di Marianna De
Crescenzo, che tutti conoscevano come «la Giovannara» perché era nata a San Giovanni
Peduccio, sulla via di Portici Quell'osteria, fino a poche settimane prima, era un indirizzo
della criminalità più organizzata e meno accomodante, ma, in poco tempo, riuscì a
trasformarsi in un ritrovo di patrioti, riscattando il malaffare con la bandiera tricolore.
Marianna, ingioiellata e inghirlandata come un albero di Natale, attese «l'invitto». Con lei
Rosa «la pazza», che doveva essere stata capace di qualche stranezza, Luisella «la lun 'a
ggiorno» (perché incontrava i clienti in una stanza dove le candele stavano sempre accese) e
Nannarella «quattro rane» (che per pochi soldi - quattro, per l'appunto - accontentava cittadini
e forestieri). Attorno a loro, personaggi già di per se appariscenti, parenti e famigli dalla
faccia sfregiata ma con la mano lesta.
I Mille si erano alleati con la mafia in Sicilia? E con la 'ndrangheta in Campania!
I malavitosi accolsero il Generalissimo con un entusiasmo genuino. Battimani, urla, cori, evviva.
Garibaldi fu invitato a salire e quasi trascinato su una carrozza dove, accanto a lui, si
sistemarono Demetrio Salazaro, il frate francescano Giovanni Pantaleo, Agostino Bertani e il
conte Giuseppe Ricciardi. L'«onorata società» sistemò i suoi uomini tutto intorno per
assicurare, contemporaneamente, il calore della gente e la disciplina nel manifestarlo. In
prima fila, appena davanti ai cavalli del traino, Michele «'o chiazziere», che, normalmente,
ritirava le tangenti dagli ambulanti della piazza. Sull'altro lato «'o schiavuttiello», che
sembrava un saraceno. In mezzo Salvatore, il fratello di Marianna, «Tore 'e Criscenzo».
Guardiani della malavita, padrini dell'Unità d'Italia.
Mentre i garibaldini stavano lentamente risalendo dalle province meridionali, da nord si
mosse l'esercito piemontese, che scelse di intervenire nel conflitto. Non avevano dichiarato
guerra le camicie rosse e non la dichiararono i piemontesi, che pretesero di giustificare
l'ingiustificabile sostenendo che si assumevano il «compito ingrato» di «fermare l'anarchia».
A giudizio di Cavour, c'era il rischio che l'impresa dei Mille potesse degenerare in una vera e
propria rivoluzione, con esiti politici allarmanti per le altre monarchie d'Europa. Se la guerra
non fosse stata fermata tempestivamente - si preoccupava-no a Torino - avrebbe rapidamente
investito i territori dello Stato Pontificio, mettendo a repentaglio la sicurezza di Pio IX.
Occorreva intervenire velocemente per troncare possibili sbocchi «democratici» e proteggere
il Papa con i suoi possedimenti. Sempre dall'entourage di casa Savoia, si evidenziava come
solo Vittorio Emanuele II - con il suo esercito - fosse nelle condizioni di ripristinare l'ordine.
La politica consentì che uno stato garantista invadesse i territori di un altro stato. E se il
pretesto era quello di proteggerne l'integrità geografica, la protezione venne esercitata così
bene che, alla fine, tolsero al Papa le Marche e l'Umbria per annetterle al Piemonte. Per poter
svolgere con dedizione il compito che si era auto-assunto - cioè quello di difendere Pio IX - il
governo di Torino ebbe la pretesa che lo stato della Santa Sede licenziasse le truppe al suo
servizio, fino a quel momento efficaci difensori del Papato. E poiché Roma non disarmò, il
Piemonte - sempre con scopo protettivo -attaccò senza tanti complimenti.
L'impresa venne considerata un altro capolavoro intellettuale di quel genio di Cavour. In
realtà sembrerebbe piuttosto un esempio di pirateria diplomatica.
In fondo, Hitler non si comportò troppo diversamente quando, agli esordi della Seconda
guerra mondiale, attraversò Belgio, Olanda e Lussemburgo per arrivare in Francia, aggirando
le difese militari. E prevedibile che - se avesse vinto - sarebbe stato lodato come uno statista
lungimirante, capace di una digressione strategica per evitare uno scontro frontale fra eserciti
opposti che avrebbe provocato decine di migliaia di morti. Correva il rischio - se avesse vinto
- di essere anche lodato come un benemerito della pace che si era proposto di limitare il
numero delle vittime, evitando inutili massacri fra soldati: i suoi, naturalmente, ma anche i
nemici, e proprio nel rispetto della vita di chi lo combatteva avrebbe potuto risiedere la
maggiore grandiosità del personaggio.
Le truppe piemontesi varcarono la frontiera l'undici settembre (1860). Puntarono su Perugia e
l'occuparono. Arrestarono il vescovo della città, monsignor Bellà, «virile e bruna figura», che
fu portato via mentre guardava i conquistatori «con sguardo fermo» e poi fucilarono un prete
colpevole, secondo loro, di aver sparato una fucilata dal campanile della sua chiesa.
Lo scontro fra i piemontesi del generale Cialdini e i pontifici del generale Lamorcière
avvenne a Crocette e non poteva esserci dubbio sull'esito, tanta era la sproporzione delle
forze in campo. Da una parte quasi ventimila uomini e dall'altra poco più che duemila.
Il combattimento durò soltanto un'oretta ma arrivarono, a Torino, dispacci di vittoria
trabocchevoli di autocompiacimento. Per dare valore all'enfasi fu necessario violentare la
carta topografica e annunciare che la battaglia era avvenuta a Castelfidardo. Altra ampollosità
geografica - rispetto a Crocette - grandiosa anche nella fonetica che impegna le mandibole
per cinque sillabe corpose e che lascia immaginare scenari guerreschi amplificati. Se Cialdini
fosse stato nominato «duca di Crocette» non avrebbe potuto gonfiare il petto a dovere. Ma «il
duca di Castelfidardo», poteva vantare un blasone altisonante.
Poi il generale dovette aumentare i nemici fino al numero di il mila, aggiungendoci - per
buon peso - un inesistente contingente di 4 mila volontari di Ancona. Il bollettino inneggiò
per alcune pagine allo straordinario valore dei vincitori, cui vollero contrapporre la
vigliaccheria degli sconfitti che, feriti, assassinavano «a colpi di stilo» i piemontesi, chini su
di loro per soccorrerli. Invece, se atti poco nobili si verificarono, furono a carico dei Savoia.
Antonio Curletti, la «spia di Cavour», nel suo diario sostenne che, nei ranghi dei papalini,
erano stati infiltrati alcuni piemontesi per essere utilizzati come intelligence. Uno di loro,
quando iniziò lo scontro, «tirò a bruciapelo un colpo di fuoco che centrò sulle spalle» il vice
comandante della guarnigione del Papa conte George di Primodan.
I piemontesi conquistarono Spoleto e cadde Ancona. I garibaldini vennero sconfitti a Caiazzo
e dovettero scappare da Isernia.
Francesco II tentò di assumere un ufficiale straniero che - chissà perché - gli dava maggiore
fiducia ma, poiché nessuno si prestava a comandare i suoi uomini, si accontentò di chi aveva
a disposizione e mise in campo il generale Giosuè Ritucci, che non sarà stato un genio, ma
era onesto e leale, nell'esercito da quando aveva 13 anni e promosso via-via per meriti e non
per raccomandazioni. Rispetto al gerontocomio che componeva lo Stato Maggiore
napoletano, i suoi 66 anni lo facevano sembrare un ragazzino. E poi ragazzino era nello
spirito: parlò con franchezza agli uomini, li spronò usando le parole giuste e si preparò allo
scontro senza timidezze.
La battaglia si svolse il primo ottobre, di lunedì. I volontari erano soliti scherzare sul fatto che
il primo giorno della settimana era quello in cui i napoletani attaccavano, sospinti dalle
preghiere dei preti della domenica. Certo, quella volta, i borbonici fecero sul serio, andarono
all'assalto con vigore e furono vicini alla vittoria. Questo tipo di scontri campali sono difficili
da raccontare perché condizionati da una serie di circostanze che sfuggono persino ai
testimoni immediati. Si corre il rischio di presentare come geniale una decisione maturata in
modo del tutto occasionale. Comunque, più volte i garibaldini furono costretti a ripiegare e,
da entrambe le parti, si registrarono episodi degni di eroismo. Francesco II cavalcò in prima
linea accanto al generale Ritucci.
Garibaldi, invece, era divorato da quei periodici dolori d'ar-trite che lo mettevano kappaò,
non riusciva a stare a cavallo, ma pretese di essere accompagnato al fronte in carrozza.
Mangiò alcuni fichi prendendoli dal cesto che teneva Jessie White ma fece anche la sua parte,
rischiando addirittura di essere ammazzato da una scarica di fucileria che gli uccise il cavallo
e gli rovesciò il calesse.
Lo scontro fu aspro, violento e, fino all'ultimo, incerto. 11 numero dei morti e dei feriti
garibaldini superò di gran lunga quello dei borbonici, ma alla fine l'esercito di Franceschiello
dovette fermarsi e ripiegare. I volontari vinsero nel senso che non si lasciarono sconfiggere, e
i borbonici persero, nel senso che non furono in grado di sfondare le linee nemiche. Ormai,
presi a tenaglia dalle camicie rosse da un alto e dai piemontesi in arrivo dall'altro, non
avevano che da rassegnarsi e considerare chiusa la partita.
LE RIDOTTE DELL'ONORE: GAETA, MESSINA E CIVITELLA
Il regno borbonico si stava liquefacendo senza onore. Riuscì a riscattarsi soltanto con la
difesa a oltranza nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, quando anche il
sacrificio era del tutto inutile.
Chi restò fino all'ultimo, fra quelle mura di sasso, rimase orgoglioso della scelta fatta al punto
da scriverlo sui biglietti da visita. Difficile comprendere che cosa spingesse tanta gente a
combattere su quell'estremo baluardo di una guerra ormai definitivamente compromessa.
Odio per il nuovo corso? Desiderio di non darla vinta ai prepotenti? Senso dell'onore? La
storia, talvolta, regala atteggiamenti razionalmente incomprensibili che maturano in un clima
irripetibile, esaltato, anche se appare del, tutto evidente - e agli stessi protagonisti - che il
risultato finale non può che essere un massacro. Con le debite proporzioni e gli opportuni
distinguo, accadde qualche cosa di simile, nel primo secolo dopo Cristo, sulla rocca di
Masada quando gli zeloti, per non cedere ai romani, fortificarono la loro tomba. I fascisti
dell'ultimissima ora - contro la logica, il buonsenso e la convenienza personale - giurarono
fedeltà alla repubblica di Salò. E, ancora durante la Seconda guerra mondiale, i kamikaze
giapponesi si catapultavano contro le corazzate americane come chi volesse colpire a pugni
l'acciaio rinforzato.
I borbonici legittimisti sapevano di non avere un briciolo
di speranza. Il loro atteggiamento poteva sembrare il rimasuglio di una romanticheria
ottocentesca. Forse qualcuno sperava ancora nella rivolta del popolo e nella guerriglia nelle
campagne, ma la maggior parte non poteva non rendersi conto che Francesco II e i brandelli
di corte rimasti con lui avevano le ore contate. Viverle eroicamente era il tributo che ciascuno
pagava al proprio orgoglio.
Dall'altra parte, l'esercito piemontese considerò quella difesa come uno sgarbo perché faceva
perdere tempo alle gloriose divise subalpine, impedendo loro di presentarsi al mondo
occidentale con le stimmate della gloria conquistata sul campo. Svillaneggiarono, criticarono
e punirono - qualche volta severamente - l'unico comportamento coerente che un soldato deve
alla divisa che ha accettato di indossare.
Il generale Cialdini cominciò con l'occuparsi di Gaeta. Aveva requisito la villa reale di
Camposile, circondata da un immenso parco di agrumi in modo che, quando si svegliava,
all'alba, poteva vedere dalla finestra la fortezza nemica che - scura e massiccia - ritagliava i
contorni dell'orizzonte fra cielo e mare. Dal letto assisteva ai bombardamenti, che furono
violenti e spietati. Gli altri ufficiali si adattarono egualmente bene: scoprirono cibi -
sconosciuti eppure gustosi - come i mandarini, che a Torino non si mangiavano, i melograni e
i fichi secchi. Per pasteggiare andavano bene i vini robusti meridionali, ma per le occasioni
speciali ci voleva lo champagne, che fra i nobili cadetti dell'Accademia piemontese si
stappava quasi in ossequio a un rito.
Serristori, magro e altissimo, si faceva seguire da un domestico nero acquistato durante la
guerra in Crimea. Prampero confidò al diario la fatica della giornata: sveglia alle 7, colazione
«à la forchette» alle dieci, un po' di esercizio fisico di pomeriggio, galoppando e alle 17 il
pranzo destinato a durare - un liquorino tira l'altro - fino all'ora di andare a letto. Mancavano i
sigari «Cavour» e queffi napoletani non erano all'altezza. Il tenente Giulio Ricordi suonava il
piano, il tenente di vascello Saint Bon, invece, organizzava interminabili tornei di scacchi dai
quali usciva vincitore nonostante offrisse agli avversari cospicui vantaggi. Le vivandiere
erano giovani, servivano a tavola e per accontentare i signori ufficiali avevano il loro daffare
per tutto il resto della giornata,
Eppure. Cialdini - nero su bianco, per lettera - protestò perché «era impossibile fare un
assedio in condizioni peggiori». Disponeva di 15.500 uomini e 808 ufficiali che vennero
utilizzati dietro una siepe di 160 mortai che vomitavano fuoco a ripetizione contro i
muraglioni di Gaeta. I proiettili, però, erano di scarsa qualità e il più delle volte facevano
soltanto fracasso. In seguito, il reparto offensivo venne arricchito da altri due cannoni -
rivoluzionari per la scienza balistica dell'epoca - che non si caricavano dalla bocca ma dalla
culatta ed erano capaci di una gittata di cinque chilometri. Li aveva fatti costruire il
colonnello Cavalli, che aveva a lungo studiato la tecnologia dell'artiglieria, inventando un
congegno davvero efficace. Però, queste armi - ottime sulla carta - non erano state collaudate
e si inceppavano continuamente per via della scarsa lubrificazione. Il più grosso sparò 73
colpi e poi si ruppe, l'altro arrivò a lanciare 103 proiettili e andò fra i rottami a fare
compagnia al primo.
Francesco II e la regina Maria Sofia si comportarono con orgoglio e dignità. Lui riscattò
l'immagine del mollaccione che gli era piombata addosso e lei fu donna di straordinario
fascino che trascinò l'entusiasmo dei giovani nobili d'Europa. Si distinsero sugli spalti,
incoraggiarono i soldati, curarono i feriti e si dichiararono comprensivi con gli uomini della
guarnigione, condivisero il razionamento del cibo e, anzi, si privarono del pranzo per favorire
gli abitanti civili della cittadella.
La regina fece a pezzi i suoi abiti per ricavarne i bendaggi per l'ospedale e confezionò dei
nastrini azzurri da cucire al bavero dei più valorosi. Restò accanto al marito, sui bastioni,
anche quando i nemici bombardavano le loro difese. I proiettili fischiavano ed esplodevano
tutt'intorno ma sembrava non dessero loro pensieri. Sembravano preparati - e forse rassegnati
- al peggio e lo dimostrarono in modo quasi incurante, come fosse un dovere della regalità.
L'assedio durò 101 giorni. All'inizio la gente, asserragliata a Gaeta, fu in qualche modo
protetta dalla presenza di alcune navi francesi che impedivano ai piemontesi di accostarsi
troppo. Perciò i borbonici potevano gettare le lenze in mare e pescare pranzò e cena. In quel
periodo Francesco II si illuse che «le dominazioni non fossero eterne» e che l'Europa
legittimista sarebbe insorta per difenderlo. In questa prospettiva scrisse: «Quando vedo i miei
sudditi che tanto amo in preda ai mali dell'anarchia e della dominazione straniera, il mio
cuore di napoletano batte indignato» Rivendicò la bontà delle sue decisioni: «In mezzo a
continue cospirazioni, non ho fatto versare una goccia di sangue e mi si accusa di debolezza.
Ho fermato le mani dei miei generali per evitare la distruzione di Palermo. Ho preferito
abbandonare Napoli per non esporla agli orrori del bombardamento». E non si risparmiò
dall'accusare i Savoia: «Ho creduto che il re del Piemonte che si diceva mio fratello e mio
amico, che protestava contro il modo di agire di Garibaldi, che negoziava con me un'alleanza
conforme agli interessi d'Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e violato tutte le leggi per
invadere i miei stati in piena pace. Sono la vittima più ingiusta delle invasioni straniere».
Linguaggio nobile e persino coraggioso, ma destinato a non spostare i termini del problema.
Le Nazioni Unite di allora erano già d'accordo altrimenti, indipendentemente dal diritto
internazionale.
Per dare una spruzzata di legittimità, i conquistatori piemontesi pensarono di concretizzare il
successo proponendo un plebiscito che avvalorasse l'annessione. La definizione - di per sé -
era infelice perché dava l'idea dell'espansione a macchia d'olio del Regno di Sardegna e non
della confluenza di varie regioni, per la libera scelta delle popolazioni. Il 21 ottobre fu il
giorno dedicato al voto, ma non fu possibile assicurare nemmeno la parvenza della
consultazione democratica.
Nei seggi vennero disposte due urne che contenevano, una, le schede per chi voleva
rispondere «sì» e, l'altra, quelle per il «no». Il cittadino, sotto gli occhi di tutti gli esagitati che
affollavano i luoghi della consultazione, doveva farsi consegnare il certificato con la risposta
e poi depositarla in una terza urna più grande che stava in mezzo alle altre due. Applausi ed
evviva per chi faceva bene il suo dovere, mentre erano assicurate bastonate per quelli che
sbagliavano. La segretezza, condizione indispensabile per verificare l'opinione pubblica, non
poteva essere garantita e, in quel clima di effervescenza politica, ci voleva coraggio per
opporsi al nuovo corso. L'ammiraglio Mudy - che pure era favorevole a Garibaldi, a Cavour e
all'Italia unita - commentò: «Un plebiscito regolato da tali modalità non può essere ritenuto
veri-dica manifestazione dei reali sentimenti del paese».
Ma chissenefrega del paese!
Elliot, ancor più esplicitamente: «Le urne stavano fra la corruzione e la violenza».
Nelle liste elettorali, vennero ammessi, in blocco, tutti i soldati dell'«esercito meridionale»
destinati a tornare a casa loro, al nord, e che, dunque, non avevano titolo per esprimere un
parere come cittadini del sud. L'avessero fatto una volta sola: in realtà - già che c'erano -
passarono per il seggio a ripetizione, deponendo due, tre, quattro schede, secondo i
suggerimenti della fantasia. In compenso vennero esclusi tutti i borbonici raccolti sotto le
bandiere gigliate che stavano oltre il Volturno, i cafoni che già stavano dando vita alle bande
legittimiste e i soldati asserragliati nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella.
In Sicilia i «sì» furono 430 mila e i «no» 680. A Napoli il risultato fu anche più imponente:
un milione e 300 mila «sì» e soltanto 10 mila «no». Alle elezioni per scegliere i deputati al
Parlamento che vennero indette nella primavera successiva, andarono alle urne - in tutta
Italia, nord e sud insieme -poco più di 400 mila persone, che rappresentavano circa la metà
degli aventi diritto al voto. La valanga di popolani, benaccetti quando alla democrazia si
giocava soltanto, ven nero prontamente esclusi quando si doveva fare sul serio.
Vittorio Emanuele II entrò a Napoli e trovò una città moderatamente trionfante, ma lui era di
umore cupo come il temporale che stava venendo giù. Acqua a catinelle sulla testa della gente
e sui capelli del re tinti con il lucido da scarpe. La tempesta sconvolse le decorazioni di gesso,
stracciò la cartapesta e fece volare via i tendaggi che il municipio - con una spesa di 200 mila
ducati - aveva fatto sistemare in suo onore In tal modo quello che avrebbe dovuto essere lo
scenario di un fastoso benvenuto si trasformò nell'immagine posticcia di un teatro all'aperto
sconvolto dalle intemperie. Per le strade, erano state disposte cento statue di donne
mitologiche seminude che simboleggiavano le cento città italiane e si scioglievano sotto gli
scrosci d'acqua perché il gesso non era sufficientemente rappreso.
Dovettero intervenire le guardie del servizio d'ordine per aprire un varco e consentire al
corteo di entrare in Duomo. E, dentro, la calca dei napoletani che volevano vedere da vicino
quel piemontese mentre baciava la reliquia di san Gennaro. Il re non voleva - doveva fargli
un po' schifo - ma gli spiegarono che non era proprio possibile evitare quella prova. Si decise
perciò di accostare le labbra all'ampolla col sangue del martire che - miracolo! - si sciolse,
dimostrando un gradimento spirituale che, a Napoli, valeva molto più del plebiscito.
I muratori, a Palazzo Reale, stavano scalpellando le insegne con il disegno del giglio per
sostituirle con lo scudo e la croce Savoia. Come immaginare una restaurazione del Borbone?
Anche la Francia che, fino all'ultimo momento, aveva tentato di proteggere Francesco II, si
rassegnò ad abbandonarlo al suo destino. Napoleone III diede ordine che le sue navi ancorate
nel golfo di Napoli rientrassero e, di fatto, lasciò via libera ai piemontesi, che furono nelle
condizioni di stringere l'assedio e sferrare le ultime grandinate di piombo.
Era questione di tempo: i borbonici non potevano né scappare né contrattaccare e, tuttavia, il
governo di Torino trovò il modo di spendere una montagna di denaro per corrompere e
ottenere a pagamento ciò che non poteva sfuggirgli per vie normali. Sempre soldi.
Sotto le mura di Gaeta spioni, camorristi, avventurieri e intriganti trovarono il modo di
gozzovigliare. La vicenda più curiosa riguardò un certo Goritte - avvocato - che, ricevuto da
Farmi, sostenne di essere in grado di convincere il re delle due Sicilie ad arrendersi. In
cambio, si trattava di restituirgli una parte del tesoro che lui aveva abbandonato al momento
di ritirarsi. Proposta inverosimile, considerando che, per l'appunto, Francesco II se ne era
andato da Napoli dimostrando totale noncuranza per i quattrini che - se solo l'avesse voluto -
avrebbe potuto farsi consegnare dalla banca. Ma il conte di Cavour, informato, si affrettò a
comunicare il suo parere favorevole all'operazione e sentenziò: «Fate pure a Francesco ponti
d'oro, la caduta di Gaeta non sarà mai pagata abbastanza».
Goritte ricevette una buona quantità di «fondi neri», li spese e - ovviamente - non riuscì a
ottenere nulla di quanto aveva promesso, perciò si presentò ai suoi committenti per chiederne
altri. Questa volta, il governo piemontese non accettò. Garitte accampò pretesti, inventò
spiegazioni, si sforzò di giustificare la sua diplomazia d'accatto e tentò di ottenere qualche
mancia in riparazione di spese, a suo dire, già sostenute. Alla fine della guerra sentì il dovere
(morale) di spiegarsi mettendo tutto per iscritto e mise mano a un'opera che provvisoriamente
intitolò: Politico tentativo di dicembre 1860 per la cessione di Gaeta senz'altro sangue.
Proprio quello che si voleva sapere. Purtroppo, però, l'autore dovette ritenere che le sue
spiegazioni non sarebbero state comprese per bene senza un'introduzione che inquadrasse la
materia in un contesto più generale. E, come se fosse una sorta di prefazione, cominciò a
raccontare la storia dei Borboni dal momento della restaurazione. L'introduzione prese ad
allargarsi enormemente affrontando questioni dinastiche anche complicate e finì per occupare
due torni giganteschi di qualche migliaio di pagine d'estensione, per alcuni chili di peso. Non
ebbe vita sufficiente per arrivare in fondo al suo impegno letterario e, dunque, per spiegare
che cosa aveva fatto lui e che cosa avevano fatto i piemontesi sotto i bastioni della cittadella
assediata. Difficile contestare la tesi secondo la quale era un maneggione: geniale, se
vogliamo, come quelli capaci di rifilare un tappeto appena filato, gabellandolo per persiano
autentico.
Cavour però non si perse d'animo e continuò a pensare al denaro come allo strumento più
appropriato per risolvere le contese di guerra. Diede disposizione di offrire due milioni
perché si arrendessero, precisando che la somma avrebbe potuto essere aumentata se il re
avesse garantito di far sgomberare anche Messina e Civitella del Tronto, che ancora
resistevano.
Fu battaglia impari. I borbonici, incalzati dal loro re, non rinunciarono alla cavalleria che
doveva essere patrimonio dei nobili. Francesco II pianse e chiese un periodo di lutto quando
seppe della morte del duca di Siracusa Leopoldo, «zio Popò», che lo aveva tradito e
sbeffeggiato con un poco generoso: «Quale sorte per la nostra dinastia finire con un imbecille
! ».
Il re vietò che gli artiglieri sparassero verso una batteria nemica che i piemontesi avevano
sistemato al riparo di una chiesa, perché i luoghi sacri andavano comunque rispettati. E, in
un'altra occasione, ordinò di restituire ai nemici una nave che era finita sugli scogli di Gaeta
spinta da una tempesta. Trattenerla come preda di guerra gli sarebbe sembrato sleale.
Cialdini non si lasciò intenerire dagli scrupoli. Sparacchiò una media di 500 bombe al giorno:
una, il 5 febbraio (1861), alle quattro del pomeriggio, centrò l'arsenale che, esplodendo
violentemente, fece tremare tutta la piazzaforte. I napoletani resistettero ancora ed è
sorprendente che non volessero arrendersi in quelle condizioni.
Non avevano più cibo e il colera ammazzava i soldati.
Anche li poteva andare bene la rima del morbo che infuriava e del pane che mancava.
Capitolare? Francesco II radunò la truppa e propose loro di fermarsi. Incredibilmente
moltissimi (e fra loro la regina) si dichiararono per la resistenza a oltranza ma, alla fine, la
ragione ebbe il sopravvento.
Le trattative per la resa vennero avviate sotto il fuoco nemico perché Cialdini non ritenne di
dover sospendere le ostilità. Non si fermò nemmeno la mattina del 13 febbraio, quando fu
avvistata la nave francese Mouette, segno evidente che il re stava preparandosi ad
abbandonare tutto.
Nella notte nacque Francesco Capobianco, figlio di Gennaro e di Elisabetta Oliva e, di
mattina, venne battezzato: l'ultimo cittadino nato in una città indipendente della nazione
napoletana.
La resa fu firmata due ore dopo. L'accordo garantì gli onori militari per i difensori.
Il 15 febbraio i due camerieri del re, Agostino Mirante «Austiniello» e Peppino Natale,
caricarono i pochi bagagli del re e i reliquiari dei santi e delle madonne che Francesco II non
voleva abbandonare in mani nemiche. Il Borbone indossò la divisa degli ussari mentre Maria
Sofia scelse un abito primaverile con una giacchetta aperta sulla camicia rosa e, in mano, un
cappellino con la piuma verde. Ventuno colpi di cannone salutarono la partenza, la banda
suonò l'inno di Paisiello e dal pennone scese lentamente la bandiera col giglio. I soldati
presentarono le armi al sovrano, ma il re non era più un re e il suo regno non esisteva più.
A Messina resistettero altri 28 giorni, asserragliati nel forte, al limite della città. Cialdini,
reduce da Gaeta, arrivò per dare la spallata decisiva. «Arrendetevi subito, altrimenti sarà
troppo tardi e non vi darò quartiere.» Anche questo era uno scontro «impossibile»: senza
rifornimenti, senza giacigli, senza cibo, senza denaro. Il comandante Fergola era preoccupato
perché non riusciva a pagare il soldo ai militari, i quali, avendolo saputo, sottoscrissero un
documento per rinunciare allo stipendio e, anzi, raccolsero 14 mila ducati fra i risparmi che
avevano conservato e li misero a disposizione per le necessità della guerra.
Eroi e infami dividevano lo stesso tetto e la stessa mensa. Cesare Anguissola, che stava a
Messina, venne a sapere che il fratello Amilcare era passato con il nemico consegnandogli
anche la nave che comandava. Si vergognò e presentò al comandante le sue dimissioni,
chiedendo di poter servire come soldato semplice. Il suo gesto venne apprezzato. «Resti al
suo posto - fu la risposta - avrà modo di dimostrare la differenza fra lei e il signor Amilcare.»
Il console piemontese Lella prometteva onori, la conservazione del posto e, addirittura,
l'avanzamento di grado per chi lasciava perdere la bandiera borbonica per accasarsi sotto lo
scudo Savoia. Il generale Locascio, che comandava la piazzaforte di Siracusa, accettò.
Accettò anche il colonnello Giulio di Candia e, in tempi diversi, il capitano Alfredo Avena,
l'attendente Giovanni Colucci e i tenenti Costantino Moffa e Vincenzo dell'Aversano. E
accettò il colonnello Gabriele Vallo, ma lui faceva la spia già da tempo ed era sul libro paga
dei liberali di Napoli che, ogni mese, mandavano alla moglie 120 ducati. I disertori venivano
sbeffeggiati. Anche in rima. Il sergente Emilio Pagano del secondo battaglione del Genio
declamò una sua poesia.
«Ribelle a Dio, ribelle al trono
empio, scordasti la data fe'
un re tradisti clemente e buono
dato dal cielo per sua mercé
va' scellerato, mi metti orrore
tu spergiurasti, sei disertore.»
A Messina sembrava che non abitassero più siciliani. Per proteggere case e negozi ognuno
aveva fatto affiggere sulla porta un cartello dal quale risultava «proprietà inglese» o
«residenza francese».
Quel gentiluomo di Cialdini, con forze crescenti, armi rinnovate e soldati ben nutriti non
riusciva a venire a capo di un manipolo di straccioni, obbligati a razionarsi le gallette e senza
più polvere da sparo. Dovette ricorrere al terrore. «Farò fucilare tanti della guarnigione
quante sono state le nostre vittime.» Pensava a una rappresaglia. «I beni del comandante e
degli ufficiali saranno confiscati. Non conoscerò più in voi i militari ma i vili assassini e per
tali l'Europa vi terrà.» Non che le minacce facessero paura ma, ormai, non era più possibile
resistere. Dopo quasi nove mesi, il 13 marzo, alle 7 di mattina, Gennaro Fergola consegnò la
piazzaforte e lo fece con orgoglio indomito. «Cediamo alla superiorità dei mezzi, non al
valore dei vincitori. Noi non potevamo salvare la monarchia, ma dovevamo salvare l'onore
militare e nazionale.» Distribuì ai più valorosi la croce di Francesco Il e - a ciascuno - un
pezzo della bandiera fatta a brandelli per evitare di consegnarla ai nemici. Si presentò a
Cialdini e offrì la sua spada. Il vincitore non apprezzò. «Vada agli arresti e deponga la sua
arma che non merita che io la tocchi.» Parola del condottiero di Crocette, il bombardatore di
Gaeta, l'affamatore di Messina, il coniglio in fuga da Custoza.
Era un momento molto rischioso per la guarnigione che si arrendeva, ma il coraggio che non
mancò durante l'assedio non fece difetto nemmeno al momento della capitolazione. «Guardi -
replicò secco Fergola - questa è la spada di un soldato onorato! Noi subiamo la sorte dei vinti,
ma voi abusate della vostra vittoria.»
Gli ufficiali vennero sparpagliati nelle prigioni di Reggio, Milazzo, Conzaga e Castellaccio e
considerarono che le piccole angherie dei colleghi facessero parte del bottino della vittoria.
La maggior parte venne processata perché - secondo l'accusa - al momento della
proclamazione del Regno d'Italia avrebbero dovuto adeguarsi al nuovo corso per non
incorrere nel reato di ribellione. Davanti ai giudici si difesero pronunciando una specie di
parola d'ordine: «Siamo orgogliosi di aver fatto quello che abbiamo fatto». Li assolsero.
Andò peggio a Civitella, che tenne duro ancora per una settimana e cadde il 20 marzo. Fra
comandanti si scambiavano dispacci in francese. I piemontesi incoraggiavano a lasciare
perdere e queffi dentro rispondevano che non se ne parlava neanche. Gli attaccanti erano
guidati dal generale Pinelli (prima) e dal generale Mezzacapo (poi), mentre gli assediati
rispondevano al capitano Giuseppe Giovine e al sergente Angelo Messineffi. Forzarono le
difese costruendo una specie di tunnel sotterraneo che consentì ai soldati di passare sotto i
muraglioni e irrompere nella piazzaforte. Il corpo a corpo fu violento e non si andò per il
sottile. Gli assaltatori massacrarono la guarnigione e chi si arrese venne messo al muro: il
capitano e il sergente, padre Zilli detto «Campotosto», dal nome del paese dov'era nato, e
Zopito di Bonaventura, detto «Zopinone».
Anche nelle prigioni dov'erano rinchiusi, i valorosi che avevano fatto il loro dovere non
persero tutte le speranze. «Quando sarà terminata questa effervescenza di passioni -
riflettevano - lo storico imparziale parlerà di quelli di Gaeta, Messina e Civitella e forse
qualcuno si pentirà degli oltraggi fatti ai fratelli e superbiranno per quell'armata napoletana
che, sconsideratamente, per primi, hanno vilipeso.»
Confidavano nel tempo che è galantuomo e che avrebbe dovuto rimettere le cose. a posto,
almeno nel giudizio della gente. «E anche per i disertori - aggiungevano - sarà oggetto di
rimorso l'essersi così prontamente collegati al nemico.»
Poveri illusi! Sono morti in attesa di essere riabilitati. E i figli. E i figli dei figli.
Chi, fra gli ufficiali, aveva servito con dignità venne congedato e mandato a casa, mentre chi
era passato dall'altra parte entrò nel nuovo esercito, migliorando, anzi, in promozioni e
carriera.
Quelli coraggiosi, con la schiena dritta, consapevoli che la parola è una e di quella bisogna
tener conto, in pensione. I voltagabbana, invece, a predicare di serietà e di severità, a chiedere
sacrifici e a pretendere disciplina.
I migliori esonerati e il peggio a comandare. Poteva essere un'Italia per bene?
Già allora qualcuno si interrogava (retoricamente) fra lo scandalizzato e l'incredulo: «Ma che
cosa se ne fanno i piemontesi di generali che, al momento buono, lasciano scappare la spada
di mano per arraffare la borsa del denaro?».
I militari dell'esercito borbonico, dopo mesi e dopo anni dalla fine della guerra, erano
rinchiusi in campi di prigionia che assomigliavano da vicino ai campi di sterminio.
La Buchenwald del Regno sabaudo di sua maestà il Galantuomo era stata ricavata in un
avvallamento del canavese, a San Maurizio, una ventina di chilometri da Torino. Ci
arrivarono a vagonate i soldati dell'esercito di «Franceschiello» e poi i papalini dello Stato
della Chiesa che venivano catturati e ritenuti bisognosi di rieducazione morale e civile.
Giungevano dopo tre-quattro giorni in nave che li portava fino a Genova, stipati sottocoperta
come facevano gli schiavisti nelle Americhe e poi a piedi, in marcia per almeno una
settimana, con abiti sempre più sdruciti e con scarpe sempre più sfondate. Non arrivavano
tutti, ma per chi aveva la fortuna - la fortuna? - di resistere cominciavano i tormenti. Un
articolo de «La Civiltà Cattolica» del 1861 descrisse le condizioni di vita di quei poveracci
con accenti scandalizzati. Stremati dalle fatiche avevano diritto a «mezza razione di cattivo
pane» e una ciotola d'acqua sporca che, secondo l'ufficiale di rancio, era minestra. In una
terra dove l'autunno è freddo e l'inverno freddissimo, dormivano in tende senza giaciglio e
con ripari approssimativi. Morivano di fame e di freddo.
Si offendono i monarchici di stretta osservanza perché sembra loro irriguardoso tirare in ballo
Buchenwald dal momento che là si è sacrificata una Savoia, Mafalda, deportata dai nazisti,
morta dopo sofferenze indicibili per l'amputazione di un braccio, troncato senza anestesia,
sopportando i tormenti con nobile e cristiana rassegnazione.
Ma, chissà se sapeva che - come lei stava morendo - i nonni avevano deciso che morissero
migliaia di cafoni meridionali. E chissà se i sostenitori a oltranza delle ragioni del Regno
sabaudo ritengono che uno valga più di migliaia. Il paragone con Buchenwald sta a
significare proprio questo:
che quando le cose sono subite diventano un sopruso e un martirio, mentre quando vengono
imposte sono un dovere o, tutt'al più, una dolorosa necessità.
In Piemonte le Buchenwald aumentarono di numero perché i prigionieri crescevano in modo
esponenziale. Il generale Manfredo Fanti scrisse a Cavour per chiedergli di noleggiare
all'estero dei vapori, in modo che fosse possibile spedire al nord 40 mila prigionieri. Fu
necessario attrezzare un altro campo poco distante da San Maurizio, a San Benigno, un
secondo ad Alessandria e altri due alla periferia di Milano.
Ma l'inferno venne attrezzato a Fenestrelle, all'imbocco della vai Chisone, dove, in passato,
era stato fortificato un pezzo di montagna con un sistema di caserme appollaiate come nidi
d'aquila fra i 1.200 e i 1.800 metri d'altezza. L'inverno era tremendo, il vento soffiava sempre
con impetuosità e i carcerieri aggiungevano per buon peso qualche angheria. Paragonarono
Fenestrelle alla Siberia. «Non so - commentò il cardinale Bartolomeo Pacca - quanto possa
essere doloroso per un polacco o per un russo essere deportato a Tobolsck o a Kamtzcatkà.
So bene però che chi è stato abituato al dolce clima del sud, il soggiorno in quell'Alpe fredda
e inospitale è assai penoso.»
Chi ebbe occasione di visitare quella masnada di infelici li trovò con camicie di tela quando i
montanari di là indossavano tre maglioni, uno sull'altro.
Lì intorno esiste ancora una mulattiera che la gente del posto indica come «la strada dei
siciliani», segno inequivoco di lavori forzati. Ci lavorarono in migliaia e a migliaia morirono.
E quanti storpiati per sempre? Quanti lasciati impazzire dal dolore e dalla nostalgia? Nei
registri della parrocchia esistono alcune indicazioni di prigionieri meridionali morti, ma della
maggior parte dei decessi non esiste traccia, perché i cadaveri vennero ammassati in botole di
calce viva che riuscì a liquefare anche le ossa di quei poveracci.
Cercarono di cancellare anche la memoria. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo. Morti di nessuno. Terroni.
Fulvio Izzo, insegnante per professione ma ricercatore assai attento per passione, nel libro
che ha firmato, I lager dei Savoia, ha messo insieme una documentazione imponente per
descrivere «la storia infame del Risorgimento». E soltanto dall'anno 2000, all'alba del terzo
millennio, 140 anni dopo l'unità d'Italia, Paolo Salerno con la sua associazione «Largo di
palazzo» ha potuto far celebrare una messa in suffragio del soldato napoletano.
A Fenestrelle gli internati tentarono di organizzare una rivolta che fu scoperta per una spiata
appena prima che i congiurati passassero all'azione. Ad Alessandria cominciarono a rifiutare
il cibo - che peraltro era schifosissimo -attuando uno sciopero della fame che costringesse i
piemontesi a intervenire. Il comandante si spaventò all'idea di dover far fronte a montagne di
cadaveri da far scomparire in breve tempo e accettò di accordare loro qualche miglioramento
del vitto e qualche allentamento della disciplina.
Avevano fatto loro credere che era arrivata la libertà e che da quel momento sì che si sarebbe
vissuti in pace e prosperità, tutti insieme, come fratelli. Li buttarono in prigione e non si sa
quanti riuscirono a salvare la pelle. Ma quelli che tornarono a casa potevano considerare i
nuovi governanti come persone cui era dovuto rispetto e, dunque, obbedienza?
PORTARONO LA LIBERTÀ SULLA PUNTA DELLE BAIONETTE
«Cari sudditi, non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere.» Francesco II, in un anelito
di compassione, l'aveva scritto al momento di lasciare il suo regno. Era una previsione quasi
ovvia. Qualcuno era già piegato sotto il tallone del conquistatore. Dopo la guerra «ufficiale» -
si fa per dire -con scontri «regolari» fra borbonici e garibaldini, ne era cominciata un'altra più
nascosta, ma violenta e senza esclusione di colpi.
Nelle campagne, sulle montagne, attorno alle città la gente si ribellava ai nuovi padroni. Li
avevano sentiti quando si presentavano come campioni della libertà, quando proponevano la
fine delle ingiustizie e quando promettevano di dividere i feudi per assegnare un pezzetto di
orto ai contadini. Ma poi, ancora provvisoriamente insediati, si accorsero che imponevano
incomprensibili ordinamenti, che applicavano leggi importate direttamente da Torino e,
soprattutto, che promuovevano una quantità di nuove tasse. Il conto della guerra che il nord
aveva unilateralmente dichiarato bisognava pur pagarlo e il conto toccava per intero al sud.
Senza curarsi di quel «comune sentire» cui attribuivano - sembrava - enorme importanza, fin
tanto che si trattava di chiacchiere. Senza nemmeno provare a realizzare quel buon governo,
per il quale avevano speso tanti proclami.
Colpirono i patrimoni delle famiglie con sistematica rapacità, per ricavare denaro ovunque.
Qualche volta trascurarono i potenti, specialmente se amici, ma non rinunciarono mai a
guadagnare sulle piccole proprietà e si accanirono sulle minuscole.
Introdussero, per esempio, l'imposta sulla successione che, di per sé, è un'assurdità. Perché
pagare per avere ciò che è tuo? «Un padre muore e la tenera famiglia resta. Ma un ricevitore,
con il feretro ancora caldo, si presenta imperterrito, rovista la casa, penetra i segreti, fa
l'inventario, somma il valore dell'eredità, calcola il diritto del fisco ch'egli rappresenta e i
lacrimanti figli con la derelitta vedova pagano una somma gravissima. E i pupilli perdono ciò
che il genitore, con sacrificio e privazioni, aveva creato a loro decoro.» Lo scrisse un nordista
con accenti che parrebbero compassionevoli: il conte Alessandro Bianco de Jurioz. Peccato
che la sua riflessione sia maturata troppo in là negli anni, nel 1876, al momento in cui tutto
era irrimediabilmente finito e il sud era già diventato la «questione meridionale». Prima,
quando faceva parte del corpo dello Stato Maggiore dell'esercito, con qualche possibilità di
farsi sentire e mitigare - se non proprio correggere - quegli atteggiamenti repressivi, lasciò
che la burocrazia facesse il suo corso.
Si domandava Alessandro Bianco de Jurioz: «Perché quella famiglia, rovinata negli affetti e
depredata nel patrimonio, avrebbe dovuto essere grata al Savoia che aveva scacciato il
Borbone?».
Già... perché? E, infatti, quella e altre famiglie - altro che grate - consideravano il nuovo
regime come un pericolo da cui difendersi. Consideravano di essere caduti dalla padella nella
brace e, dovendo schematizzare, pensavano che si stava meglio prima, quando si stava
peggio.
Gli stessi piemontesi se ne resero conto.
Lacaita, dalle Puglie, scrisse al Presidente del Consiglio Cavour per informarlo che «i fautori
del partito dell'annessione erano ormai una minoranza».
E Carlo Farini, in Parlamento, se ne uscì con un commento che la diceva lunga: «Su sette
milioni d'abitanti non arrivavano a cento quanti credessero nell'Unità».
«L'incursione del nord - è il parere di Denis Mack Smith -sembrava una nuova invasione
barbarica.» E lo storico Pasquale Villari ebbe modo di riflettere: «La nuova classe politica
non aveva alcuna esperienza amministrativa e nessuna conoscenza del Meridione, per cui i
meriti patriottici - più spesso presunti tali - furono considerati sostitutivi delle capacità
professionali. Le varie oligarchie regionali furono sostituite da famiglie rivali che erano state
più rapide a cambiar casacca. E questo spiega perché, insieme ad alcuni avventurieri e
disonesti, un numero spaventoso di imbecilli abbia invaso le nuove province del Regno».
Dopo l'assalto di Garibaldi alle difese belliche di «Franceschiello» se ne realizzò un secondo
realizzato dalla sedicente democrazia piemontese agli uffici pubblici. Gli invasori occuparono
tutto - ma proprio tutto - come se volessero confiscare le istituzioni dello Stato per farne
«cosa loro».
Un volonteroso capitano del piccolo esercito di Torino diventò un generale petulante
dell'armata nazionale. Un discreto maestro del nord si trasferì al sud per trasformarsi in un
pessimo direttore didattico. Il capo sezione diventò capo ripartizione e il capo divisione
diventò prefetto. Il cuoco delle cucine del duca di Modena, Ferrari, si ritrovò con i galloni di
colonnello di Stato Maggiore. Un altro colonnello, Vincenzo Cattabeni, aveva avuto la
fortuna di gestire una casa da gioco. E il cassiere della spedizione dei Mille, Agostino
Bertani, da sottufficiale, addetto ai servizi di sanità, si ritrovò ufficiale superiore con un conto
in banca invidiabile: quando doveva lavorare per vivere chiedeva una lira e mezza per ogni
visita ma, dopo l'impresa delle camicie rosse, era in grado di vivere di rendita con un
patrimonio valutato in 14 milioni.
Ognuno venne sbalzato dalla sua piccola barca del tranquillo Piemonte sulla grande nave di
una nazione riunificata che galleggiava a fatica.
Torino peggiorò se stessa e danneggiò l'Italia. La legge della prevalenza del cretino (secondo
la quale è facile che ognuno occupi il primo posto gerarchico per il quale è inadeguato e da lì
cominci a fare danni) venne applicata su larga scala e, quasi, scientificamente.
Il malcontento era avvertibile a pelle. Anche i liberali più motivati si sentivano irritati per la
perdita dei loro usi amministrativi e giudiziari. Avevano creduto alle promesse dei piemontesi
che li avevano rassicurati sulla possibilità di instaurare un autogoverno a macchia di
leopardo, in modo da realizzare una specie di Italia federale. Ma, quando venne il momento
di decidere in materia di decentramento e di deleghe, non si trovarono ragioni sufficienti. La
nuova legislazione peggiorava le condizioni dei cittadini: meglio gli austriaci nel Lombardo-
Veneto, meglio il Granduca in Toscana, meglio i papalini in Romagna e meglio - molto
meglio - il Franceschiello di Napoli.
Poche settimane dopo la proclamazione dell'Unità d'Italia, il duca di Maddaloni si lamentò
con passione. «Ai mercanti piemontesi - sentenziò - si danno le forniture più lucrose. I
burocrati del Piemonte occupano quasi tutti gli uffici pubblici e sono spesso ben più corrotti
degli antichi burocrati napoletani. A fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi i
quali, oltraggiosamente, vengono pagati il doppio di quelli del posto. A facchini della dogana,
a carcerieri, a birri vengono uomini del Piemonte e donne piemontesi si prendono a nutrici
dell'ospizio dei trovateffi quasi che neppure il latte e il sangue di questo popoio sia
salutevole.» La campagna di liberazione si era trasformata in un'occupazione.
Degli invasori, i nuovi padroni ebbero gli atteggiamenti, la iattanza, il disprezzo e la
supponenza. I ricchi rimasero ricchi e i poveri - se possibile - più poveri. La grande speranza
stava partorendo una grande delusione. La rivoluzione - come diceva il principe di Salma ne
Il Gattopardo - era stata fatta in modo che, cambiando ogni cosa, restasse tutto come prima.
«Questo popolo del sud, nel 1859, era vestito, calzato, industre e aveva una moneta.» La
penna del conte de Jurioz non era affatto indulgente nei confronti dei meridionali. Li
considerava nati in Italia ma più vicini - somaticamente -agli indigeni delle tribù africane
come i Noveri, i Dinkas o i Poulo-Penengo. Per questo le sue osservazioni hanno più valore.
«Il contadino comprava e vendeva animali, corrispondeva gli affitti, alimentava la sua
famiglia, viveva contento del proprio stato materiale. Adesso è l'opposto.» Dati alla mano.
«Le civaie furono trovate al prezzo di 2.80 ma nel 1863 erano già salite a 5.20. La carne
vendevasi a 15 grana il rotolo e nel 1863 a grana 36. Una gallina salì dalle 20 alle 55 grana.»
Il Governo appena instaurato non si curò dell'economia, non promosse l'industria, non favorì
l'agricoltura e non procurò lavoro.
La gente vide nello Stato un nemico che si presentava con le facce arcigne dei suoi burocrati
senza cuore. Dei predoni. Molti si nascosero nei boschi e si difesero con le armi che avevano.
Scelsero di stare alla macchia alcuni vecchi garibaldini che avevano tifato - e sinceramente -
per l'Italia dei Savoia e che furono costretti a misurare quanto ampia fosse diventata la
distanza fra le aspirazioni e il risultato. Li seguirono alcune migliaia di reduci dell'esercito
borbonico che si trovarono a casa, disoccupati e senza la possibilità di lavorare. Si diedero
alla guerriglia alcuni nobili legittimisti che vagheggiavano il ritorno di Francesco II, come
Achille Caracciolo di Grifalco o gli spagnoli Borjes e Tristany. E poi: contrabbandieri,
furfanti, autentici criminali, gente in cerca di avventura, farabutti che, in qualunque tempo,
avrebbero sparato per uccidere e ucciso per rubare.
Alcuni erano di poche parole. Altri riuscivano a improvvisare dei discorsi anche convincenti
per incitare la truppa. Qualcuno era vanitoso: si vestiva come un albero di Natale e si
pavoneggiava se parlavano di lui. Qualcun altro viveva in modo più defilato e non sopportava
nemmeno di essere guardato con troppa insistenza.
C'erano gli idealisti e i rubagalline: coloro che - come Domenico Tiburzi - davano un senso
cavalleresco alla battaglia e rispettavano i nemici e altri - come Gaetano Coletta Mammone -
che, al contrario, torturavano spaventosamente chi capitava fra le mani.
Ebbero un momento di fama Giosafatte Talarico in Puglia, Pietro Corea nella zona di
Catanzaro, Cipriano e Giona La Gaia nella provincia di Avellino e il generalissimo Carmine
Donatelli Crocco, con il suo gregario Giuseppe Nicola Summa «Nincò-Nanco», nel
potentino.
La gente conosceva i briganti attraverso nomignoli strani che si erano dati: Diavolicchio,
Caprariello, Cavalcante, Coppolone. Addirittura: Cappuccino, Chiavone e Culopizzuto.
Arrotolata sulla pancia portavano un'ampia cinta di stoffa nella quale infilavano tutto
l'armamentario che potevano, come il Pancho Villa della rivoluzione messicana che compare
nei film di Hollywood.
Erano religiosi fino alla superstizione. Tenevano sul petto l'immagine del loro santo preferito,
che avrebbe dovuto proteggerli dalle schioppettate e, agli incroci delle strade di campagna, si
fermavano a baciare i piedi di ogni statua di Cristo che incontravano. Senza eccezione, erano
contro l'Unità d'Italia.
Invece di comprendere le ragioni del malcontento, i padroni del tricolore ritennero di
ricorrere alle maniere forti.
«Lo scopo è chiaro.» Il conte di Cavour, dall'alto del suo seggio a Torino, indicò procedure e
obiettivo. «Imporre l'Unità alla parte più corrotta. Sui mezzi non vi è dubbiezza: la forza
morale e, se questa non bastasse, quella fisica.» Della forza morale non fu possibile scorgere
traccia. La forza fisica, invece, fu assicurata da una siepe di baionette che risultarono assai
affilate.
Fu uno scontro all'ultimo sangue fra quei poveri disperati che non avevano più nulla da
perdere e quei conquistatori impegnati a dimostrare che facevano sul serio. Una guerra
sporca, niente di cui andare fieri. Ogni arma poteva andare bene, ma se non c'era niente con
cui difendersi o con cui attaccare si azzannavano a morsi. Come le belve. Mescolati con
buona proporzione, fra nord e sud, le ragioni e i torti, gli slanci e le vigliaccherie, le miserie e
la nobiltà. Fu un feroce regolamento di conti fra le regioni settentrionali e quelle meridionali,
ma anche fra gli stessi meridionali: baroni e contadini, proprietari e possidenti, borbonici e
militari, guardie e ladri, marchesi e servi.
Le bande che si nascondevano nella boscaglia praticavano la guerriglia secondo la tecnica del
«mordi e fuggi», che non erano in grado di teorizzare, ma che mettevano in pratica con
straordinaria efficacia. Conoscevano il territorio, godevano di larghe protezioni e complicità,
potevano spostarsi con agilità fra balze e rocce, evitavano la forza e schiacciavano gli
avversari quando erano più deboli.
I boschi e le montagne dell'Abruzzo, della Basilicata, della Puglia e della Campania furono
teatro di violenze inaudite. Fu una vera e propria guerra civile, con tutto il meglio e tutto il
peggio dei conflitti senza pietà: eroi e canaglie - qualche volta, per caso - opportunisti,
delatori, approfittatori, malvagi e pericolosissimi stupidi.
I militari - bersaglieri e carabinieri - risposero colpo su colpo, gareggiando in furore e
riuscendo spesso a superare gli avversari in crudeltà. Tanta era la disumanità dei militari
piemontesi che, per ogni banda distrutta, un'altra ne nasceva con i parenti e gli amici dei
morti nello scontro.
I fuorilegge riuscirono a costituire 400 bande agguerrite. Con un calcolo meticoloso
Tarquinio Maiorino ha potuto stabilire che contavano 80.702 combattenti. Almeno altrettanti
coloro che facevano parte delle organizzazioni ausiliarie: gli informatori, i vivandieri, gli
agenti di collegamento, i familiari, le amanti. I banditi godevano di popolarità diffusa fra la
gente e, quando arrivavano nei paesi, era festa grande.
Di essi la maggior parte venne uccisa: pochi, dalle zone di guerriglia, riuscirono a guadagnare
il carcere. Fu uno sterminio di massa, senza attenuanti e senza pietà.
Quanti? Michele Topa cita i giornali stranieri che, in que gli stessi anni, tentarono un bilancio
di questa guerra strisciante, nascosta e dimenticata. Risultò che, dal settembre 1860 all'agosto
1861, poco meno di un anno solare, vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti e 6.112 prigionieri.
Vennero uccisi 64 sacerdoti e 22 frati, 60 giovani sotto i 12 anni e 50 donne. Le case distrutte
furono 918 e 6 i paesi cancellati dalla carta geografica. Cifre, naturalmente, provvisorie e
ampiamente parziali per difetto.
Ancora Tarquinio Maiorino racconta che, da un'indagine parlamentare, nella sola provincia di
Chieti e soltanto nel periodo primo gennaio 1861-28 febbraio 1863 furono «eliminati» oltre
7.000 banditi, dei quali 2.413 uccisi in combattimento, 1.538 catturati e fucilati e 2.768
catturati e gettati in prigione.
Dalle ricerche di Alessandro Romano risulterebbe che fra il 1861 e il 1872 caddero in
combattimento 154.850 cosiddetti briganti, altri 11.520 vennero fucilati o morirono in
carcere, per un totale di 266.370 vittime.
Infine, Roberto Martucci, un altro storico che si è a lungo occupato della «questione
meridionale», con un complicato calcolo che sta fra la statistica e le proiezioni aritmetiche, è
in grado di sostenere che le vittime furono 180 mila.
Forse esagerano gli storici che, leggendo il Risorgimento in chiave borbonica, sostengono che
il Meridione pagò l'Unità d'Italia con 700 mila vittime. E, probabilmente, è un impeto di
polemica quello che porta Antonio Ciano a ipotizzare un milione di morti. Ma certo la parola
«massacro» non è né gratuita né esagerata.
Governo, Parlamento, Istituzioni stavano a Torino e a Firenze: lontani. Lontanissimi.
Il sud era in mano ai militari che proclamarono - di fatto -uno stato d'assedio.
Il generale Della Rocca, quasi vantandosi, scrisse un suo memoriale perché non si
dimenticasse. «Tanti erano i ribelli che numerose furono le fucilazioni. Da Torino mi
scrissero di moderare queste esecuzioni riducendole ai soli capi ma i miei comandanti, in
certe regioni dove non era possibile governare se non incutendo terrore, vedendosi arrivare
l'ordine di fucilare solo i capi, telegrafavano con questa formula:
"Arrestati, armi in pugno, nel tal luogo, tre, quattro, cinque capi briganti". E io rispondevo:
"Fucilate! ".»
Il comandante Fumel considerò come un titolo di merito personale aver mandato a morte
almeno 300 persone «fra briganti e non briganti». L'aiutante di campo di Vittorio Emanuele
II, generale Solaroli, riteneva che i concittadini del sud fossero «le più grandi canaglie
dell'ultimo ceto» e continuò a pensare che dovessero essere fatti fuori senza far sapere nulla
alle autorità. Non conveniva nemmeno imprigionarli perché costava mantenerli: meglio
metterli una spanna sotto terra.
La democrazia arrivò sulla punta delle sciabole e venne vista da dietro il mirino di uno
schioppo.
Non passava giorno senza che qualche deputato intervenisse per denunciare soprusi o per
chiedere ragioni.
Francesco Proto, il duca di Maddaloni, presentò un'interpellanza per dire che nel Meridione -
la sua terra - si stavano comportando come Cortés e Pizarro nell'America del Sud. Voleva
discutere in aula, l'onorevole, ma il Presidente della Camera non accettò che l'interpellanza
venisse discussa e Francesco Proto presentò le dimissioni e se ne andò sbattendo la porta.
Giuseppe Ferrari pretese che si formasse una commissione d'inchiesta per capire, «per
indagare le cause di questa guerra civile», ma poiché i risultati non piacevano al Governo se
ne fece una seconda e poi una terza. Il 15 agosto 1863 venne proposta e approvata la legge
Pica, che praticamente dava veste giuridica a quello che già stava accadendo.
Strana contraddizione: il Parlamento legittimò un eccidio quando avrebbe dovuto legiferare
per punire chi militarmente aveva ecceduto.
De Sivo commentò: «Cominciava l'arte del boia». I piemontesi instaurarono il codice militare
di guerra con corti marziali e fucilazioni non soltanto per chi «utilizzava» le armi contro i
militari di casa Savoia La legge consenti punizioni esemplari anche contro coloro che,
genericamente, «venivano sorpresi» con un'arma di qualunque genere.
E chi, fra i contadini abituati a vivere in campagna, non aveva, coltelli, scuri, accette e lame varie? Per
l'interpretazione. molto ampia che venne data della norma, ognuno di loro poteva finire
davanti al plotone d'esecuzione.
Il generale Pinelli estese la pena di morte «a chi avesse con parole, con denaro o con altri
mezzi eccitato i villici a insorgere», nonché «a coloro che con parole o atti insultassero lo
stemma dei Savoia, il ritratto del Re o la bandiera nazionale».
Questo, in una terra dove gli abitanti parlavano una lingua che i conquistatori non capivano,
offre un'idea sufficiente degli abusi possibili.
Anche il poeta patriota Dragonetti non volle sottrarsi a un commento: «Con la legge Pica, le
vendette non ebbero migliore opportunità per avere libero sfogo». Bastava poco per finire
nella lista dei proscritti. La rudezza disumana dei conquistatori finì con l'accrescere il senso
di ostilità delle popolazioni locali. Di conseguenza aumentò la durezza della re-. pressione; e,
con effetto moltiplicatore, crebbe il numero di. sbandati.
Di questo bagno di sangue l'Europa non volle sapere. Napoleone III, informato per sommi
capi di quanto stava accadendo, commentò: «Nemmeno i Borboni potevano fare. peggio».
Ma, forse per evitare intoppi diplomatici, non ritenne di interferire. Il deputato Mancini,
dovendone discutere in Parlamento, se la cavò con un «preferisco non fare rivelazioni. di cui
il mondo potrebbe inorridire». Dichiarazione - nel contempo - coraggiosa e ipocrita:
conteneva gli estremi per una denuncia robusta e, tuttavia, evitando ogni riferimento
significativo non poteva produrre alcun risultato.
Minghetti teorizzò e ottenne «un salutare terrore». I vincitori nascosero tutto in fosse comuni
nell'Abruzzo, in Campania e nelle Calabrie. Seppellirono la verità con i cadaveri, infangarono
la loro memoria attribuendo loro i comportamenti più infami; il più delle volte, erano bugie
inventate per il piacere dei vincitori. I piemontesi si attribuirono meriti che non avevano,
vantarono imprese mai accadute, testimoniarono il falso e obbligarono i loro amici a
confermare le loro versioni. Fu una repressione largamente arbitraria alla quale pochi
tentarono di porre rimedio. Il generale Mazé de la Roche, da Foggia, il primo ottobre 1862, fu
costretto a diramare una circolare per raccomandare «comportamenti corretti specialmente
con l'infima classe». L'ufficiale aveva da lamentarsi perché «giaceva nelle carceri un gran
numero di persone sul cui conto non si sapeva nulla tranne l'imputazione vaga di connivenza
con il brigantaggio. Non di rado le persone così arrestate dimostravano con evidenti prove di
essere invece vittime dei briganti prima e poscia denunziate per private vendette». Occorreva
qualche accertamento in più prima di ammanettare la gente. «In questo modo, infatti, oltre
allo smacco col dovere di rimettere in libertà questa gente, a meno di ostinarsi in un evidente
diniego di giustizia, si fanno nuovi nemici al governo. Meschina è la figura dell'autorità.»
Le voci che tentavano di richiamare gli ufficiali alla moderazione restarono isolate, fra
branchi di militari che sembravano assetati di sangue. Che avevano anche velleità letterarie e,
per dire ai loro uomini che dovevano massacrare quella gente, scomodavano i classici. Il
comandante della piazza di Teramo, Galateri, proclamò: «I buoni non debbono farsi
sopraffare: s'armino di falci, di forche e di tridenti e li per-seguitino da tutte le parti. La
truppa li sosterrà. Ma chiunque darà ricetto a un brigante sarà fucilato senza distinguere sesso
e condizione. Lo stesso alle spie. E chiunque, richiestolo, non aiuterà la forza a scoprire il
covo dei banditi avrà posta a sacco e a fuoco la propria casa».
Cialdini arrivò a paragonarsi a una forza della natura. «Fra chi ruba e assassina - scrisse - e
chi vuole difendervi sostanze e vite non è scelta dubbia. Occorre gittare lo sgomento in chi,
da lontano, muove e paga e dirige le bande. Quando il Vesuvio rugge, Portici trema.» Il
Vesuvio, naturalmente, era lui che faceva la voce grossa.
E in un crescendo di delirio di onnipotenza, il generale Pinelli vergò un'invettiva contro «il
branco di quella progenie di ladroni che ancor s'annida sui monti». Ordine ai soldati:
«Snidateli! Siate inesorabili come il destino Contro i nemici la pietà è delitto. Schiacceremo il
sacerdotal vampiro che con le sue sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre
nostra». Si compiacevano talmente di questi loro componimenti che li spedivano ai giornali
perché li pubblicassero con il loro nome in grassetto e in bell'evidenza.
IL MERIDIONALE «BUONO» È QUELLO CHE STA SOTTOTERRA
La Corte d'Assise del mandamento giudiziario di Benevento lavorò quattro anni abbondanti,
ascoltando tutti i testimoni - proprio tutti! - ma, alla fine, non fu possibile condannare per
brigantaggio quella gente. Gli inquirenti avevano anche ordinato una perizia per sapere -
esattamente -come erano state strappate le immagini che raffiguravano Vittorio Emanuele II.
Ma, nonostante un'istruttoria monumentale, i giudici, con sentenza evidentemente sofferta,
furono obbligati ad assolverli. Il sindaco di San Giorgio Luigi Germano, l'ex capo urbano
Michele Pappone e quel piccolissimo proprietario terriero che era Giovanni Paradiso non
avevano fatto nulla per incoraggiare, favorire, proteggere la guerriglia. E nemmeno si poteva
sostenere che la tenessero in simpatia.
Purtroppo il verdetto fu del tutto inutile perché erano già stati fucilati e, dopo che li avevano
ammazzati, li lasciarono a marcire quattro giorni nello spiazzo accanto al cimitero. Restarono
là, come mucchi di stracci puzzolenti, con i soldati - sempre più lontani per evitare il cattivo
odore - che impedivano alla gente di avvicinarsi per pietà. Soltanto un garibaldino toccò i
cadaveri, ma lo fece per tagliare le dita delle mani dei morti e sfilare loro gli anelli.
E un episodio piccolo - e, se vogliamo, piccolissimo - della guerra che oppose il nord al sud
ma, come in una cartina di tornasole, rappresenta efficacemente il livello di brutalità' in uno
scontro che non conosceva regole.
Il grido di battaglia consisteva in: «Portateli vivi o morti, meglio se morti». Questa guerra
senza fronte, senza regole e senza prigionieri si svolse secondo schemi ricorrenti. I briganti
uscivano dai loro nascondigli e attaccavano i convogli come gli assalti alla diligenza nel Far
West. Rapivano i possidenti per ottenere il riscatto e comprare armi, oppure invadevano
qualche villaggio e saccheggiavano le case dei ricchi considerati amici degli usurpatori. Per i
soldati di guardia non c'era scampo e sul pennone del municipio tornava la bandiera gigliata
di Francesco Il. Festeggiavano con vino, arrosti allo spiedo, donne, musica e qualche
tentativo di comizio a favore della controrivoluzione.
I soldati italiani arrivavano in forze, ma i briganti raramente' accettavano lo scontro e,
sfruttando la conoscenza del terreno, si ritiravano in luoghi inaccessibili per l'esercito.
Bersaglieri e carabinieri potevano soltanto sfogare la rabbia sulla popolazione che aveva
assistito, prima, e che doveva subire poi. Le angherie, qualche volta, furono del tutto
immotivate: più che all'anticamera della democrazia facevano pensare ai generi cli tirannia
più spietati.
A Sant'Andrea di Conza, il maggiore Bruno fece arrestare una donna «per togliere al marito
la possibilità di comunicare». A Candida devastarono due farmacie. E ad Arzano, con un
colpo di forbice, mozzarono il labbro di una guardia urbana perché aveva gridato: «Viva il
re», immaginando che intendesse il Borbone, posto che re era Vittorio Emanuele II, così
come Francesco II.
I piemontesi saccheggiarono per due ore Montemarano e Carbonara pretendendo che gli
abitanti tenessero le porte aperte. «Eccedenze di scassinazioni e incendi» a Trescine. E la
legione ungherese - veri patrioti nazionali - nel paese di San Potito che contava 719 abitanti
ne trucidò 212 e ne arrestò altri 180.
Quante 'nefandezze? E chi le racconta? Qualche squarcio di verità spunta dalle montagne di
carta nascoste negli archivi storici, ma non ce n'è nessuna in grado di arrivare ai libri
«importanti».
Ricerche molto significative si devono, per esempio, al lavoro di Edoardo Spagnuolo, ma i
risultati delle sue indagini possono trovare ospitalità soltanto in quaderni pubblicati a cura
dell'associazione culturale «delle Due Sicilie» e spedite ai lettori che già sono orientati a
un'analisi contro corrente di quel periodo. Egemonia culturale significa anche questo: che chi
ha da dire qualche cosa di diverso può farlo solo a spese sue, generalmente senza il supporto
di case editrici importanti, con scarsissima possibilità di diffondere i suoi elaborati e, quindi,
senza avere l'occasione di proporre al grande pubblico commenti che non sarebbero giudicati
«politically correct».
A Valturara fucilarono Giuseppe D'Amore, un ragazzetto di 13 anni, ma solo perché
«sembrava più grande». Misero al muro il trombettiere e il tamburino della banda musicale di
Lapio. E a Sorbo il capitano Taglie, con l'approvazione del governatore De Luca, fece
sbattere in galera don Giuseppe De Pascale che teneva in casa la spada e il cappello del
fratello che, prima di morire in combattimento, aveva servito nell'esercito borbonico.
I preti pagarono un prezzo spropositato. I piemontesi erano così pregiudizialmente prevenuti
nei confronti dei religiosi che a Montemarano fucilarono il parroco che, pure, era liberale
convinto. Un errore.
Si sbagliarono anche nei confronti di don Nicola Cocchia di Aveffino, al quale impedirono di
predicare anche se, poche settimane prima, era stato fra i pochi sostenitori del «sì» al
plebiscito di annessione. E strapparono dal letto don Agnello Dell'Acqua che era ammalato
con la febbre alta e che non avrebbe potuto fare ciò di cui lo si accusava perché, da giorni, era
infermo.
Portare il saio o la tonaca era considerata un'aggravante e se, nella gerarchia della Chiesa, si
occupava un posto significativo era sicuro indizio di connivenza con i briganti. De-portarono
71 vescovi lasciando le sedi senza guida. Misero le manette al presule di Benevento
Benedetto D'Acquino, che aveva già compiuto 90 anni, e quello di Avellino, Francesco Gallo,
lo tennero prigioniero a Torino, dove mancava monsignor Luigi Fransoni, costretto a una
specie di esilio ,a Lione. Tutta la curia di Benevento e di Avellino finì in carcere, perché se il
responsabile della diocesi era avversario e, loro collaboravano con lui, erano avversari pure
loro. Era stata inventata la proprietà transitiva in campo giuridico.
Le leggi erano orrende, ma diventarono atroci per colpa di coloro che le applicavano. Si
poteva finire sottoterra per il capriccio di un caporale.
Per le bizze di alcuni funzionari - talvolta meschini - venivano arrestato madri, mogli e
sorelle di presunti responsabili di qualche reato «e su di esse si sfrenava ogni libidine».
Il capitano Antonio Restelli bruciò con un ferro rovente un sordomuto di vent'anni. Pensava
che fingesse per sottrarsi al servizio militare. Ebbe modo di ripetere la tortura 154 volte,
come testimoniarono altrettante bruciature sul corpo di quel poveretto. Ma non ci furono
conseguenze disciplinari: l'ufficiale aveva fatto il suo dovere e l'anno dopo, per altri meriti,
venne insignito della croce di San Maurizio e Lazzaro.
Le campagne si popolarono di spie, delatori, pentiti, prezzolati di tutte le risme, approfittatori
e magnaccia.
A Montefalcione - si diceva - il sindaco Pasquale Maunello ed Ercole Porcari facevano
arrestare o scarcerare a pagamento. Per un compenso di tre ducati venne tradito Carmine
Petruziello, finito direttamente davanti al plotone d'esecuzione. Tre mesi dopo lo cercavano
per fucilano.
Le cronache - sempre un po' reticenti - di quei tempi diedero conto di un tal Pasquale
Pellegrina, che tutti chiamavano «Bellocci», e che arrivò in paese con un carro stracolmo di
refurtiva. A Montefusco avevano rubato e rovinato tutto il possibile. Presero cento ducati e
gli arredi da casa Giannone. Ferirono Mariarosa in casa Solcano, trafugarono la biancheria e i
mobili e distrussero la cantina. In casa Marino presero il corredo che il capofamiglia,
Mariano, aveva preparato per le due figlie in età di marito. E in casa Sobilio, non trovando
niente di valore, si accontentarono di pestare sotto i piedi i bachi da seta che erano il lavoro e
l'unico reddito di quella gente.
Paradossalmente chi ci lasciava subito le penne era fortunato, perché gli altri venivano
sbattuti in galera e non era possibile sapere perché, in attesa di che cosa e fino a quando. Nel
carcere di Montefusco - quello dove i cospiratori contro il Borbone studiavano e scrivevano -
si trovarono ammassati in 300 in condizioni di sovraffollamento inumane. Il minimo di
condizioni igieniche non esisteva, e non c'era nemmeno da mangiare e da bere. Scoppiò
un'epidemia infettiva e il medico del carcere evitò accuratamente di curare i malati per evitare
il contagio. Si affacciava sulla porta della prigione e chiedeva a gran voce: «Qualcuno ha
bisogno di qualcosa?» Silenzio da dentro, dove appena riuscivano a respirare, o al massimo
qualche inintelleggibile borbottio che non consentiva di essere considerato una risposta.
Silenzio: diniego. Voleva dire che non c'era bisogno di interventi sanitari, mentre i morti si
ammucchiavano nel cortile per finire in fosse comuni.
Col ferro e col fuoco distrussero Pontelandolfo. e Casalduni, nella provincia di Benevento.
All'assalto c'era anche il bersagliere di Delebio Valtellina, Carlo Margolfi, classe 1837, che
confidò al suo diario emozioni e ricordi.
Il 14 agosto 1861, a 24 anni appena compiuti, con altri 900 soldati, fu mandato a sedare i
disordini esplosi nella zona di Benevento, dove i ribelli filo-borbonici Cosimo Giordano e
Donato Scurignano calpestavano le croci dei Savoia per inalberare gli stendardi gigliati.
«Riceviamo l'ordine di entrare in Pontelandolfo, fucilare gli abitanti meno i figli, le donne e
gli infermi e incendiarlo. Difatti, un po' prima di arrivare in paese incontrammo i briganti
attaccandoli e, in breve, i bri ganti correvano avanti a noi.» I comandanti, invece di inseguire
le bande armate che potevano difendersi ed essere pericolose, preferirono vendicarsi contro
chi era rimasto a casa sua. «Entrammo in paese e subito cominciammo a fucilare i preti e gli
uomini, quanti capitavano. Indi il soldato saccheggiava. E, infine, abbiamo dato l'incendio al
paese.»
Le SS dell'Ottocento indossavano la divisa dell'esercito del Piemonte. E, infatti,
Pontelandolfo fu una specie di Marzabotto, un atto di vandalismo senza motivo e senza
giustificazione. Però la storia di Marzabotto fa parte del patrimonio di memoria collettiva e, a
scuola, non c'è insegnante che non dedichi almeno un ciclo di lezioni alle stragi nazi-fasciste.
«Cuneo che brucia ancora», il boia di Genova, il colonnello Reder, il colonnello Kappler, le
Fosse Ardeatine rappresentano i grani del rosario degli orrori conosciuti. Di Pontelandolfo
sanno la gente del posto e il suo sindaco.
E del tutto evidente che, se i tedeschi avessero vinto la guerra, nelle pagine dei testi
accademici non ci sarebbe stata traccia di Marzabotto e, al contrario, gronderebbero di
citazioni per Pontelandolfo se, per avventura, i borbonici fossero riusciti a riprendersi il
Regno di Napoli. In quel caso i briganti sarebbero stati partigiani del re, eroi di puro conio,
pensionati a spese dello Stato, titolari del nome di strade e di piazze, di viadotti, di ponti, di
circonvallazioni alberate o di interi quartieri costruiti apposta per celebrare la loro memoria.
Il diario di Carlo Margolfi è stato trovato, per caso, dai dirigenti della Pro Loco, che l'hanno
pubblicato nel 1997.
«Quale desolazione! - commentò il soldato - Non si poteva stare intorno
per il gran calore. E quale rumore facevano quei poveri diavoli che per sorte avevano da
morire abbrustoliti sotto le rovine delle case. Noi, invece, durante l'incendio, avevamo di
tutto: pollastri, vino, formaggio e pane.» Che avevano rubato nelle case.
I top-gun che venivano dal Nord rasero al suolo Auletta (nella provincia Citeriore), Rignano
(in Capitanata), Campochiaro e Guardiaregia (nel Molise), Vesti, Vico Palma e Barile (in
Basilicata), Spinelli e Cotronei (in Calabria). Restarono senza casa 360 mila persone destinate
a ingrossare il numero dei briganti e, dunque, a finire ammazzate da una schioppettata.
Fu un tentativo di pulizia etnica che non scandalizzò come quella dei serbi a danno degli
albanesi e che, per il momento, non gode nemmeno di una critica imparziale. Lo sterminio
degli indiani d'America, adesso, viene chiamato con il suo nome. Ma, in Italia, dov'è il
Soldato blu di casa nostra? E dov'è Balla coi lupi per ripristinare un maggiore equilibrio di
giudizi? Pasquale Squitieri ha girato una pellicola - Briganti -ma, per ammissione unanime
dei commentatori, il suo lavoro è stato boicottato in modo che lo vedesse il minor numero di
persone possibile.
Massimo d'Azeglio dovette amaramente riflettere che era una ben strana Unità d'Italia se
occorrevano battaglioni armati fino ai denti per mantenere una parvenza di ordine al di là del
Tronto.
Antonio Gramsci, fondatore del Partito comunista, non ebbe difficoltà a dichiarare che «lo
stato italiano era stato una feroce dittatura e aveva messo a ferro e a fuoco l'Italia meridionale
e le sue isole: crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori
sabaudi tentarono di infamare con il marchio dei briganti». Gramsci era nato ad Ales, in
Sardegna, ma la sua famiglia era meridionale. Il padre, Giuseppe, era nato a Gaeta nel 1860,
proprio durante l'assedio e il nonno, Gennaro, che poteva fregiarsi del titolo di «don», era
stato un capitano della gendarmeria borbonica.
Il 18 aprile 1863 il deputato Miceli denunciò in Parlamento:
«Vidi i massacri in Calabria», e chiese maggiore attenzione. Inutile: i militari erano i padroni
della vita e della morte e non accettavano interferenze. Nicotera, destinato a diventare
Ministro dell'Interno, considerò che quanto stava avvenendo «erano gesta paragonabili a
quelle di Tamerlano, Gengis Khan e Attila». Anche lui impegnò il Governo perché mettesse
in atto politiche più comprensive. Aria al vento. Colonnelli e generali continuarono a
terrorizzare le popolazioni del sud per fare vedere che facevano sul serio.
Il 21 novembre 1862 il capitano Isidoro Cerruti era riuscito a intrappolare una banda di
briganti. Il combattimento avvenne a Rapolla: nove fuorilegge vennero uccisi e gli altri 12
catturati furono fucilati sul posto. Quattro mesi dopo; quasi nello stesso posto venne trovato il
tenente Giacomo Bianchi, ucciso, con la testa mozzata, un sasso in bocca e un cartello con la
scritta: «Vendicati i nostri morti». Per le vittime «regolari» è stato eretto un tempietto e posta
una targa commemorativa. I morti dovevano essere ricordati. Degli altri non si conoscono
nemmeno i nomi con esattezza.
I briganti sotterravano vivi i bersaglieri, li decapitavano e giocavano a bocce con i crani di
quei poveretti tumefatti.
I bersaglieri e i carabinieri - quando li prendevano - li impiccavano dove potevano e li
lasciavano penzolare per giorni dalla forca. Inchiodavano i cadaveri sui portoni dei palazzi.
Lasciavano le carcasse dei morti nelle piazze o sui gradini delle chiese, in modo che la gente
potesse constatare quanto potesse diventare tremenda la furia del nord.
Conservarono le teste dei più conosciuti in cassette di metallo, per poterle esibire come trofeo
di vittoria. Con l'approvazione dei superiori. E il criminologo Lombroso misurò con
attenzione volumi e circonferenze del cranio per sentenziare che, con quel cervello, non
potevano che diventare delinquenti.
Nessuna differenza nel modo di combattere. Insieme praticavano una brutalità sfrenata,
gareggiando in ferocia, ma questi erano a casa loro e gli altri, con l'aria di fare gli ospiti,
volevano portargliela via. Soltanto alla fine, quando i vincitori scrissero la storia, si seppe da
quale parte stavano i buoni e da quale i malvagi. Come sempre.
Con il 1868, quando la resistenza del sud andava già declinando, il Presidente del Consiglio
dei Ministri, non a caso un generale, Luigi Menabrea, pensò che il problema di quei riottosi
poteva essere risolto alla radice con una prigione immaginata proprio per loro. Non in Italia,
troppo comodo, ma lontano, in Patagonia, nel sud del sud dell'Argentina e del mondo, con i
ghiacciai dell'Antartico all'orizzonte e una temperatura media di notte di 12 gradi sotto zero.
Là i ribelli, abituati al clima che consentiva di camminare scalzi, avrebbero avuto il fatto loro.
Più che tenerli prigionieri si trattava di ammazzarli.
Una lettera indirizzata al plenipotenziario Enrico della Croce di Doyola, datata 16 settembre
1868, firmata dal capo del governo, contiene, nella premessa, l'affermazione che «si deve
porgere ogni cura per quanto si riferisce all'efficacia dei sistemi punitivi onde migliorare la
condizione morale del nostro paese». Poi il dettaglio. «Ella non ignora certamente in quali
tristi condizioni versino alcune parti d'Italia ed Ella ben conosce come già più volte abbia
dato prova a ricercare se, col mezzo degli stabilimenti penali in lontane contrade e colla
deportazione dei rei, non raggiungerebbesi quel miglioramento che, nelle condizioni presenti,
è pressoché impossibile ottenere col sistema in -vigore della reclusione». Occorreva
accrescere «il sano terrorismo» di Minghetti.
Dunque? «In tempi addietro - continuava il messaggio -furono fatti studi per fondare uno
stabilimento di simil natura nelle regioni bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come
limite fra i territori argentini e le regioni deserte. Quel progetto, rimasto allo stadio di
semplice studio preparatorio, potrebbe forse utilmente essere coltivato.» Occorreva perciò
sondare le disponibilità del governo della Repubblica Argentina per farsi vendere qualche
chilometro quadrato di quel deserto. Beninteso: «Le terre da noi eventualmente scelte
sarebbero fra quelle totalmente disabitate e l'occupazione non avrebbe in vista lo stabilimento
di una colonia». E - questo non lo disse, ma andava sottinteso - giusto il tempo di ammazzarli
tutti quanti. Il Piemonte voleva la sua Cayenna. La voleva l'Italia nuova delle libertà predicate
e ritrovate, quella di Silvio Peffico che fremeva di sdegno per due schiaffi dati allo Spielberg
e quella di Cesare Beccaria che, da morto più che da vivo, convinceva i salotti bene sulla
necessità di una giustizia umana.
Se la Patagonia non diventò la terra della deportazione in massa per poveracci che avevano
avuto il torto di tenere la testa alta e di non essere disposti a piegarla facilmente, è dovuto a
ragioni di campanilismo diplomatico. La risposta, da Buenos Aires, di Enrico della Croce di
Doyola troncò le aspettative di Menabrea: «La Repubblica Argentina - riferì - ha preteso in
ogni tempo e tutt'ora pretende un assoluto diritto sulle terre, tutte, al di qua e al di là dello
stretto di Magellano. La sovranità argentina sulle zone indicate da Vostra Eccellenza è
incontestabile essendo colà il luogo dove sorgeva l'antica missione di Carmen e un forte
occupato dagli argentini». Frati e militari scapparono al nord perché era impossibile resistere
in quelle tundre flagellate dal vento ma i muri, anche se diroccati, testimoniavano un'antica
presenza ufficiale. «Poca speranza rimane che ai disegni del governo italiano possano essere
favorevoli gli animi di questi governanti i quali, infatti, negarono la vendita, l'ospitalità,
l'affitto e il comodato.» Forse, senza rendersene conto, il Sud America, aggrappato a una
questione di integrità territoriale nazionale, evitò all'Italia una vergogna.
Lorenzo Del Boca