Il Real Esercito delle Due Sicilie tra il 1830 ed il 1861
Ilario Simonetta
Tra i primi provvedimenti adottati da Ferdinando II salito al trono l’8 novembre 1830 a soli venti anni, ci fu quello della ristrutturazione dell’Esercito che negli ultimi tempi aveva subito un processo involutivo veramente preoccupante. Il giovane Sovrano agì con estrema decisione e severità e non esitò, con un ordine del giorno, a chiedere le dimissioni di un gran numero di ufficiali inetti ed incapaci, richiamando in servizio, reintegrandoli nel grado e nelle funzioni, gran parte di coloro che si erano compromessi nei moti del 1820. Riammise in servizio, destando grande scalpore, anche il Tenente Generale Carlo Filangieri, convinto, a ragione, che solo un Esercito ben addestrato, con soldati disciplinati e motivati avrebbe potuto sostenere con lealtà e fedeltà il Trono e difendere l’autonomia e l’integrità dello Stato.
Alla riforma dell’Esercito Ferdinando si dedicò con vera passione. Visitava ed ispezionava sovente le caserme, si tratteneva affabilmente con i militari dei vari gradi dei quali conosceva tutti i nomi. In breve tempo questi militari impararono a stimare ed amare il loro giovane Sovrano.
Nel giro di 10 anni il rinnovamento dell’Esercito era praticamente concluso, con reparti disciplinati e fedeli alla Corona, ben addestrati, ben armati ed equipaggiati, degni insomma del più grande Stato Indipendente della Penisola, che godeva di grande prestigio in campo Europeo, nonostante i malevoli pareri di tanti storici di parte.
I progressi furono evidenti. È appena il caso di accennare che nel 1842, sorse primo in Italia, l’Opificio Meccanico e Pirotecnico, fu istituito l’Ufficio Telegrafico, nacquero nuovi reparti e specialità, quali il genio idraulico e terrestre, l’artiglieria costiera, i lancieri (specialità della Cavalleria), ed il superbo Corpo dei Cacciatori, i bersaglieri napoletani.
Il reclutamento e l’alimentazione dei Reparti
Il reclutamento obbligatorio fu introdotto nel 1810, sottoposto a revisione nel 1833 ed integrato con ulteriori provvedimenti nel 1837. Si stabilì che i Corpi del Real Esercito si reclutassero mediante la leva, l’arruolamento volontario e il prolungamento del servizio. Tutti i sudditi in età compresa tra i 18 ed i 25 anni erano soggetti all’obbligo del servizio militare, mediante estrazione a sorte nella misura di un prescelto ogni mille. Erano esclusi dalla leva di terra i distretti marittimi e le isole di Ponza e Ischia, destinati a fornire il contingente per la Real Armata di Mare. Per antico privilegio, i sudditi siciliani non erano soggetti agli obblighi di leva. Comunque, circa 12.000 siciliani servivano nell’Esercito in qualità di volontari. La durata del servizio militare era di 10 anni, di cui 5 in servizio attivo ed altri 5 in congedo illimitato nella riserva. Per la Cavalleria, il Genio, l’Artiglieria e la Gendarmeria, la ferma era di 8 anni, tutti di servizio attivo. L’arruolamento volontario e il prolungamento della ferma assorbiva un gran numero di aspiranti, tanto che la richiesta di coscritti era molto ridotta. Infatti, contro un gettito di circa 50.000 reclute, il contingente di leva non era superiore alle 12.000 unità.
La Nunziatella
La formazione degli Ufficiali era affidata al Real Collegio Militare con sede nel monastero dell’Annunziatella a Pizzofalcone. L’Istituto fu fondato nel 1786 da Ferdinando IV ed era orientato essenzialmente alla formazione degli Ufficiali di Artiglieria e del Genio. Gli allievi ammessa in età dai 10 ai 12 anni, per legge dovevano essere figli di Ufficiali Superiori, Capitani inclusi o appartenenti alla nobiltà. Successivamente furono ammessi anche i figli degli Ufficiali subalterni e appartenenti alla borghesia. L’allievo doveva corrispondere una retta annuale di 180 Ducati, pari a circa 1350 €, più 100 Ducati il 1° anno, per il corredo. Il numero di allievi era di 170 effettivi, divisi in quattro compagnie ed inquadrati da Ufficiali, Sottufficiali e da allievi scelti dei corsi superiori. I corsi avevano una durata di 8 anni, al termine dei quali, gli allievi sostenevano un esame di idoneità. Veniva quindi stilata una graduatoria e gli allievi migliori erano assegnati all’Artiglieria e al Genio, mentre gli altri venivano assegnati alle altre Armi. Chi non superava l’esame, transitava nei vari reparti in qualità di Sottufficiale, o veniva congedato. Gli insegnanti, militari e civili, erano di prim’ordine.
La ristrutturazione degli organici.
Con il Real Decreto del 21 giugno 1833, furono apportate importanti modifiche agli organici e, negli anni successivi furono costituiti tre nuovi reggimenti di Fanteria di linea , quali:
– il 13° Lucania, nel 1840;
– il 14° Sannio ed il 15° Messapia, entrambi nell’agosto del 1859.
(lastrina con organico tipo del Rgt. di Fanteria e le denominazioni dei vari reggimenti).
Superbi, nelle loro uniformi erano i reparti di Cavalleria inquadrati in 7 Reggimenti: due di Ussari, due di Lancieri e tre di Dragoni (lastrina con organico del Rgt. di Cavalleria ), più un quarto Reggimento in tempo di guerra.
A livello di eccellenza erano i reparti di Artiglieria e Genio e le loro specialità.
Nell’organico dell’Esercito non va dimenticato il Reggimento Real Marina, antesignano dei moderni Marines e che fu il primo in Italia. Infatti, un reparto omologo verrà creato dall’Esercito Italiano solo nel 1861. Il Reggimento Real Marina fu protagonista nel 1848 di un’operazione anfibia tesa a riconquistare la Sicilia a cominciare da Messina, ove un presidio Borbonico resisteva eroicamente da tempo all’assedio operato dai rivoltosi siciliani. Con un’operazione di sbarco molto ardita, i fanti di mare costituirono una testa di ponte sulle spiagge sotto un intenso fuoco avversario, consentendo alle truppe del Gen. Filangieri di organizzare la riconquista dell’Isola.
Dell’Esercito facevano parte anche 4 Reggimenti Svizzeri, chiamati dai napoletani “Titò”, che dal 1825 presero il posto degli Austriaci. Erano truppe fedelissime e nelle quali Ferdinando II poneva la più completa fiducia. Il trattamento loro riservato era migliore di quello dei soldati napoletani. Erano indubbiamente dei privilegiati, ma costituivano un sicuro e solido puntello. I fatti tragici delle giornate del 1848 a Napoli, in Sicilia, in Calabria, confermarono l’assoluta fedeltà di queste truppe alla Corona. Successivamente, questo feeling si interruppe improvvisamente e sanguinosamente nel 1859, subito dopo la morte di Ferdinando II, in seguito all’ammutinamento del 1°; 2° e 3° Reggimento. La causa scatenante che determinò la rivolta e che causò decine di morti e centinaia di feriti, fu apparentemente causato dai nuovi accordi tra i Cantoni di arruolamento e la Corona Napoletana. Si stabiliva, infatti, che nelle bandiere dei reparti Svizzeri non dovevano più essere apposti gli emblemi dei Cantoni di reclutamento. Ma ai tragici accadimenti non furono estranee le oscure manovre di agenti sabaudi, tendenti a minare le basi dei nuclei più compatti dell’organizzazione militare borbonica. La prova evidente di tali sospetti sta nel fatto che nelle tasche degli svizzeri morti e feriti furono trovate un consistente numero di monete d’oro. La rivolta fu stroncata dall’intervento dei reparti Napoletani e dal 4° Reggimento svizzero estraneo ai fatti. I reparti ammutinatisi furono sciolti e sostituiti con altre unità composte da militari esteri, specie bavaresi, e gli elementi rimasti fedeli provenienti dai disciolti reggimenti elvetici. Furono quindi creati tre Battaglioni di Cacciatori Bersaglieri Esteri, più un quarto di Veterani.
Trattamento economico
Le paghe dei militari napoletani, anche se inferiori a quelle dei loro colleghi svizzeri erano comunque superiori a quelle percepite dai pari grado dell’Armata Sarda. Ad esempio, un Colonnello dell’Esercito Borbonico, percepiva una paga superiore del 7,9% rispetto a quella di un pari grado piemontese. Nel grado di Tenente, lo scarto era del 2%. Le paghe degli Ufficiali, comprensive delle varie indennità erano le seguenti:
- Colonnello: ducati 1524 pari a € 13.830;
- Ten. Col.: ducati 1056 pari a € 9.577;
- Maggiore: ducati 900 pari a € 8.162;
- Capitano: ducati 600 pari a € 5.442;
- Tenente: ducati 372 pari a € 3.380.
Sullo stipendio base gravava una ritenuta del 2% che concorreva a formare il fondo pensioni. I Sottufficiali delle Due Sicilie percepivano uno stipendio superiore del 20% rispetto ai pari grado dell’Armata Sarda. Nel grado di caporale, il divario era del 14%, mentre le paghe dei soldati dei due eserciti si equivalevano. È da notare inoltre, che il valore della moneta era, nelle Due Sicilie , più elevato che nel Piemonte e che il sistema dei prezzi era abbastanza stabile, specie per i generi di più largo consumo. Oggi queste paghe che possono apparire modeste, si rapportavano ad un costo della vita assai contenuto e si possono considerare adeguate al contesto socio-economico del Regno. Sul piano economico quindi, lo status di militare, offriva un tenore di vita soddisfacente e ciò spiega, almeno in parte, l’esistenza di un gran numero di volontari e raffermati.
Aspetti della vita quotidiana.
Il vitto, veniva distribuito una volta al giorno alle 9.30 del mattino. La qualità era buona e le razioni, generose, comprendevano sempre, pasta in brodo e al sugo di carne. La carne (240 grammi) veniva sostituita il venerdì dal baccalà. Il pane era distribuito ogni due giorni in ragione di 650 grammi al giorno. Per il pasto serale i militari dovevano provvedere in proprio. Il rancio veniva consumato in camerata utilizzando appositi tavoli a quattro posti e veniva portato in loco dal personale delle cucine che, dopo mezz’ora, provvedevano a ritirare le stoviglie. Gli Ufficiali e i Sottufficiali consumavano il pasto unico nella giornata presso le rispettive mense. L’eventuale pasto serale era a pagamento. Il vitto degli Ufficiali e dei Sottufficiali era più vario nell’assortimento e, in genere, comprendeva una minestra, due piatti di carne, due di verdure, dessert, pane, formaggio, frutta e vino. Le condizioni igieniche collettive ed individuali venivano controllate con continue ispezioni e controlli tendenti ad accertare il rispetto delle più elementari norme d’igiene imposte dalla vita in collettività. Nei mesi estivi, i soldati dovevano effettuare i cosiddetti bagni di pulizia che, per i più ritrosi e pudici potevano ridursi al solo lavaggio delle estremità inferiori. Ogni giovedì della settimana, venivano controllati il taglio dei capelli, la pulizia del collo, delle orecchie e dei piedi. Tali ispezioni erano ripetute anche durante le marce. Ogni settimana c’era il cambio della biancheria personale. Il militare versava al caporale di servizio gli effetti sporchi da inviare in lavanderia, che venivano restituiti il sabato successivo. Ogni anno erano previste le visite sanitarie generali a cura del 1° Chirurgo del Reggimento che disponeva d’autorità i ricoveri del caso. Ogni mattina, alla sveglia, il caporale di settimana al grido di “Chi è malato?” chiamava coloro che intendevano chiedere visita medica, i quali venivano poi avviati all’infermeria del Reggimento o all’Ospedale.
Nelle caserme le camerate erano spaziose, riscaldate e ispezionate con frequenza. Due piantoni detti “quartiglieri”, designati giornalmente e agli ordini di un caporale di quartiere, provvedevano alla sorveglianza dei locali. I soldati dormivano su un pagliericcio riempito di paglia lunga che veniva cambiata ogni 3 mesi. Il pagliericcio era posto su una lettiera formata da due supporti in ferro che sostenevano tre tavole di legno per il fondo. Erano previste le lenzuola e, dal 15 ottobre al 15 aprile, una coperta di lana. Il posto letto era completato da una mensola di legno detta “cappellinaio”, dove il soldato sistemava gli effetti di equipaggiamento lasciando ben visibile la targhetta riportante il nome e il numero di matricola.
La giornata iniziava alla sveglia che, a seconda della stagione, variava da mezz’ora prima dell’alba, all’alba. Dopo mezz’ora dalla sveglia c’era la visita medica e quindi le varie istruzioni fino alle 09.30, ora di distribuzione del rancio. Alle ore 13 d’inverno e alle 15 d’estate, i militari si recavano in libera uscita per poi rientrare in caserma mezz’ora prima del tramonto. La giornata si chiudeva due ore e mezzo dopo la ritirata con il silenzio.
L’addestramento era meticoloso e quotidiano, tranne il sabato, i giorni festivi ed in quelli particolarmente caldi o freddi, ovvero con pioggia molto forte. Nei mesi estivi, i soldati venivano istruiti anche al nuoto. Due volte alla settimana avevano luogo i “Campi di Brigata” con affardellamento completo.
Il venerdì alle 13, le truppe si recavano al Campo di Marte, dove il Re in persona dopo aver passato in rivista i reparti, assumeva la direzione delle esercitazioni. Al termine, il Re non mancava di premiare i reparti che si erano particolarmente distinti. Non di rado, le truppe stanche e sudate erano trattenute per la recita delle preghiere serali.
Uniformi e armamento
Le riforme apportate da Ferdinando II a partire dal 1830, modificarono l’aspetto del soldato Napoletano. Le nuove uniformi si rifacevano allo stile francese e tale influenza rimase evidente fino alla caduta del Regno. Anche i distintivi di grado che rimasero in vigore fino al 1861, si rifacevano al modello francese. Dal 1841 gli Ufficiali adottarono la goliera in metallo quale distintivo di servizio, in luogo della settecentesca sciarpa bianca e rossa, che rimase in uso solo per i Generali. Sempre in quegli anni venivano fissati i colori per le uniformi e cioè: divisa blu scuro per tutti i corpi ad eccezione dei Cacciatori per i quali era di colore verde e degli svizzeri che indossavano una giacca scarlatta. I pantaloni erano rosso scuro per la gran tenuta della Fanteria della Guardia Reale e di quella di Linea, celeste per gli svizzeri, blu scuro per il Genio e l’Artiglieria ed infine grigi per i Cacciatori. I pantaloni estivi erano per tutti di colore bianco. Le ghette erano di panno nero d’inverno e di tela bianca in estate. L’abito a falde detto “giamberga” era comune a quasi tutti i corpi, era ad un solo petto chiuso da nove bottoni. Le falde per le uniformi della Cavalleria erano, per motivi pratici, molto ridotte. Le uniformi per la Cavalleria non si discostavano molto da quelle francesi, costituite da un abito a due petti con pettorina per i lancieri, mentre gli Ussari della Guardia Reale indossavano un “dolmann” blu chiaro (in napoletano “dolmanda”)con cordelline bianche. I Cacciatori a piedi e i Tiragliatori della Guardia Reale, indossavano un corto giubbetto di panno verde senza falde. I Reggimenti dei Granatieri, Cacciatori e Guardie del Corpo, aggiungevano sulla bottoniera del petto nove “brandeburghi” di lana bianca, che erano gialli per la truppa e di filato d’argento e d’oro per gli Ufficiali.
Per la maggior parte dei reparti, il copricapo adottato era lo shakot in feltro nero con visiera e guarnizioni in cuoio nero, filettature laterali in oro ed argento per gli Ufficiali, rosse per la truppa. Nella parte frontale compariva un fregio in ottone indicante la specialità o il reggimento di appartenenza. Per la Cavalleria erano adottati elmi per i Dragoni, Guardie del Corpo e Carabinieri. I Lancieri usavano la Czapka, mentre gli Ussari e i Cacciatori lo Shakot. Alcuni reparti, in occasione di eventi particolari, usavano con la gran tenuta un colbacco nero di pelo d’orso. In inverno e con il cattivo tempo, veniva indossato un cappotto di panno grigio-azzurrognolo o blu, a seconda dei corpi, mentre per la Cavalleria era di panno bianco con un’ampia mantellina detta “ pellegrina”. Il copricapo, in caso di pioggia era ricoperto da una fodera di tela cerata nera sulla quale era dipinto il fregio dell’unità.
Equipaggiamento
L’equipaggiamento individuale era costituito da uno zaino detto “mucciglia”, dalle buffetterie e da una bandoliera con giberna. Tutto il materiale era in cuoio. Lo zaino conteneva l’insieme dei capi di vestiario e del corredo. Sulla parte superiore trovava posto una fodera con anima circolare per avvolgere il cappotto e altri capi di corredo che non entravano nello zaino. Il tutto era assicurato allo zaino con apposite cinghie passanti in cuoio. Le buffetterie comprendevano una tracolla in cuoio bianco per sostenere al fianco la sciabola o la baionetta, nonché una bandoliera con giberna per la custodia delle cartucce e l’occorrente per la pulizia delle armi. Facevano infine parte dell’equipaggiamento un tascapane in tela e una borraccia di forma lenticolare in vetro soffiato ricoperta di spesso cuoio.
Armamento
Le armi erano prodotte esclusivamente dalle industrie del Regno con materiali provenienti in massima parte dalle miniere di Pazzano e di Stilo in Provincia di Catanzaro e, in minore quantità dall’Isola d’Elba. È il caso di sottolineare, che il ferro calabrese era giudicato il migliore, dopo quello svedese. Il Real Stabilimento di Mongiana, con un’area coperta di circa 16.000 m2 e con una manodopera di 600 unità era la ferriera più importante del Regno. Questo opificio, produceva la quasi totalità del ferro e dell’acciaio che veniva poi lavorato dalle Industrie di Stato. Molti erano gli opifici per la costruzione di armi bianche, da fuoco portatili, di artiglierie, affusti, carriaggi e materiali da ponte. Le armi bianche e quelle da fuoco individuali, tutte di ottima fattura, erano prodotte presso la fabbrica di armi di Torre Annunziata e assemblate presso la Montatura d’Armi di Napoli. In un anno, venivano prodotte 11.000 armi da fuoco e 3.000 armi bianche. Presso l’Arsenale di Napoli si costruivano gli affusti per le artiglierie, carriaggi e materiali da ponte. Per quanto riguarda questi ultimi materiali, notevole era un parco ponti che, con solo 60 barche di un modello particolare, consentiva l’allestimento di un ponte che avrebbe permesso il superamento del fiume Po in qualsiasi punto. Altri arsenali minori erano attivi a Palermo e Messina, mentre a Capua era dislocato un opificio pirotecnico. Presso Castel Nuovo, a Napoli, la Reale Fonderia produceva bocche da fuoco in bronzo. Essa, a partire dal 1835, fu sottoposta a continui ammodernamenti, con la messa in funzione di forni Wilkinson e, nel 1841 furono attivati altri forni e macchinari che consentivano la costruzione di cannoni in ferro. Sempre nel 1841, iniziò l’attività l’Opificio Meccanico di Pietrarsa, per la produzione di materiale per l’Artiglieria e il Genio nonché di rotaie ferroviarie. L’Opificio contava ben 1050 addetti ed una superficie coperta di 34.000 m2. La produzione degli esplosivi avveniva presso la Real Fabbrica di Polveri di Torre Annunziata che vantava una tradizione plurisecolare, essendo nata nel 1652. Dal 1854 venne costituito un nuovo stabilimento a Scafati. Le polveri venivano quindi stoccate nella polveriera centrale di Baia e in quelle di Napoli, Capri, Capua, Gaeta, Palermo, Messina e Siracusa.
Le armi bianche in uso derivavano dal modello 1820; ammodernate a partire dal 1830, restarono invariate sino al 1861. I Generali avevano in dotazione delle scimitarre di stile orientale e di pregevole fattura introdotte nel periodo Murattiano. I reparti a cavallo adottarono le sciabole a lama dritta di derivazione francese, ad eccezione degli Ussari della Guardia del Corpo che mantennero la sciabola modello 1796 inglese. I Lancieri oltre alla lancia, erano armati di una sciabola con lama leggermente curva, mentre le truppe appiedate erano equipaggiate con il tradizionale briquet a lama larga con fornimenti in ottone e fodero in pelle nera. Particolari erano le daghe dei Guastatori con l’impugnatura forgiata a testa di leone e lama a sega, mentre sontuose ed elaboratissime erano le sciabole da parata dei “Tamburi maggiori”. Negli anni ’50, con l’introduzione delle prime carabine che sostituirono in alcuni Corpi i lunghi fucili, furono distribuite le caratteristiche sciabole-baionetta. Le armi da fuoco portatili, subirono un processo di ammodernamento che iniziato nella metà degli anni ’30, durò circa un decennio. Si passò dalle armi con sistema di accensione a pietra focaia, a quelle con accensione a luminello con capsule a fulminante. La trasformazione interessò anche la rigatura delle canne, a tutto vantaggio della gittata e della precisione del tiro (lastrina con fucili). Alcuni Corpi, come la Cavalleria, continuarono ad avere carabine a pietra focaia, forse in considerazione della scarsa possibilità di utilizzo delle armi da fuoco in battaglia. Molti reparti a cavallo, erano armate con una coppia di pistole da cavalleria.
Per quanto attiene alle artiglierie, a partire dal 1835, sotto l’impulso del Gen. Filangieri, Direttore dei Corpi Facoltativi, l’Esercito Borbonico dette inizio ad un vasto programma di rinnovamento dei materiali di Artiglieria. Furono effettuati studi sul sistema Francese del 1827 e su quello Piemontese del 1830. La riforma Napoletana optò per un sistema simile a quello francese, ma con profonde modifiche e innovazioni razionali dovute al Ten. Col. Landi, allora Direttore dell’Arsenale di Napoli.
A seconda dell’impiego le Artiglierie erano suddivise in:
- Artiglieria da Campagna, con Batterie da posizione e da battaglia;
- Artiglieria da Montagna. Questo tipo di Artiglieria armò anche le batterie per le Operazioni anfibie;
- Artiglierie da assedio o da Piazza. Era dotata di cannoni da 12 libbre (122 mm) lunghi.
- Artiglieria per la difesa da Costa. Impiegava cannoni da 12 libbre e obici da 80 e 30 libbre per il lancio di granate.
Anche nell’Artiglieria Napoletana furono attivati studi per il perfezionamento delle bocche da fuoco, nonché per l’applicazione della rigatura. Nel 1859/’60, nell’Arsenale di Napoli, si costruirono cannoni rigati in bronzo utilizzando macchinari ideati dal Colonnello Afan De Rivera. Artiglierie di questo tipo vennero impiegate nella difesa della Piazzaforte di Gaeta e, dopo la caduta del Regno, alcune di esse furono cedute allo Stato Pontificio.
Conclusioni
Il Real Esercito delle Due Sicilie fu un organismo militare che non ebbe nulla da invidiare a tanti altri. Come altri, visse eventi ora propizi, ora contrari, nelle alte sfere ebbe ottimi Generali, ma anche personaggi mediocri sia sul piano professionale che su quello della dignità personale. Cito per tutti il caso clamoroso del Generale Pianell, Ministro della Guerra di Re Francesco II, che all’avvicinarsi delle bande garibaldine, il 2 settembre 1860, rassegnò le dimissioni nelle mani del giovane Sovrano, mostrandosi qualche tempo dopo disinvoltamente per le strade di Napoli con l’uniforme ed i gradi di Generale di Divisione del neo costituito Esercito Italiano. Per contro, l’Esercito Napoletano annoverò moltissimi eccellenti Ufficiali, specie nei gradi intermedi e bassi che alla caduta del Regno, fedeli al giuramento prestato al loro Re, rifiutarono il passaggio nell’Esercito Italiano nel quale potevano mantenere l’anzianità di grado e la paga acquisiti e si avviarono verso un futuro di dura prigionia e di stenti indicibili. Lo stesso discorso vale per i Sottufficiali e la truppa che, guidati da capi valenti e coraggiosi, diedero sempre prova di fedeltà, disciplina ed eroismo, seguendo il loro giovane Re negli epici 102 giorni di Gaeta e resistendo ad oltranza nelle fortezze di Messina e Civitella del Tronto. La storia recente, ci ha insegnato che qualche altra monarchia, di fronte ad eventi altrettanto tragici che hanno segnato la nostra Nazione, non ha saputo dimostrare la stessa dignità ed eroismo dell’ultimo Re delle Due Sicilie. L’Italia ufficiale, dopo 148 anni da quegli avvenimenti, disconosce ancora ed ignora le molte gloriose imprese dell’Esercito Napoletano, per esaltare solo quelle dell’antagonista. Il suo dramma è stato trasformato in farsa avente per titolo “l’Esercito di Franceschiello” e le battute e le innumerevoli derisorie barzellette sono tuttora circolanti. Gli eroi del Volturno, di Chiazzo, di Gaeta, di Messina, di Civitella del Tronto, i martiri di Fenestrelle, di San Maurizio Canavese e di tanti altri lager dei Savoia, chiedono dopo quasi un secolo e mezzo, rispetto e giustizia. Li chiedono all’Italia tutta, ma in modo particolare a noi, figli del Sud .